India: 8 milioni di indigeni rischiano lo sfratto dai territori ancestrali
Una decisione della Corte Suprema indiana mette in pericolo milioni di indigeni, che potrebbero essere costretti ad abbandonare il territorio in cui vivono da secoli. I favorevoli alla sentenza pensano che aiuterà a difendere la foresta. I suoi detrattori, invece, ci vedono la mano di grandi interessi economici e una «sentenza di morte» per la popolazione indigena dell'India
da Nuova Delhi, India
Circa otto milioni di indigeni in India sono in pericolo di essere sfrattati dalle loro terre ancestrali dopo una decisione della Corte Suprema dello scorso 13 febbraio che ha sollevato molte critiche. Gli attivisti per i diritti dei popoli tribali hanno definito la decisione «un disastro senza precedenti», «il più grande sfratto di massa mai verificatosi in nome della conservazione».
La decisione è stata spinta da una serie di petizioni avanzate da organizzazioni conservazioniste come Wildlife First, Wildlife Trust of India e Tiger research and conservation Trust, che premono affinché il massimo organo giuridico nazionale dichiari invalido il Forest Rights Act del 2006.
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Popolazione indigena indiana e la legge sui diritti forestali
L’atto estende agli Adivasi – i popoli aborigeni d’India – il diritto sulle terre che furono occupate dai loro antenati. I sostenitori della legge affermano che questa aiuta a ridurre la “storica ingiustizia” commessa contro gli abitanti delle foreste, ma è stata anche oggetto di notevoli controversie. Alcuni sostengono porterà a una massiccia distruzione delle foreste e dovrebbe quindi essere abrogata.
Le organizzazioni conservazioniste, dal canto loro, accusano gli Adivasi, in circa 20 stati indiani, di aver occupato illegalmente le aree protette da parchi e riserve mettendo a repentaglio gli sforzi per la conservazione della fauna selvatica e delle foreste. La loro proposta prevede invece che siano gli stati nazionali a controllare le singole richieste delle famiglie indigene e, sulla base dell’atto, decidere della loro permanenza nelle zone forestali.
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India: le tribù riconosciute
Le foreste indiane sono abitate da molte tribù “schedate” che sono tra i gruppi più marginalizzati e impoveriti del paese. Parliamo di circa 250 milioni di persone – di cui circa 100 milioni sono popolazioni tribali – cui il governo garantisce alcuni diritti sulle foreste. Le comunità Adivasi sono particolarmente numerose negli stati di Andhra Pradesh, Chhattisgarh, Gujarat, Jharkhand, Madhya Pradesh, Maharashtra, Odisha, Bengala occidentale, in alcuni stati nord-orientali e nelle isole Andamane, dove risiedono alcune tribù incontattate.
Molti dei gruppi tribali minori sono particolarmente sensibili al degrado ecologico causato dalla modernizzazione: la silvicoltura commerciale e l’agricoltura intensiva hanno portato alla distruzione molte delle foreste del subcontinente che per molti secoli avevano resistito all’agricoltura.
Debi Goenka, del Conservation Action Trust, sostiene invece che gli attivisti per i diritti umani e altri gruppi che si sono opposti all’ordine della corte «sembrano pensare che l’India possa vivere senza le sue foreste e i suoi corsi d’acqua».
L’impatto del divieto sulle comunità tribali dell’India
«È difficile immaginare la foresta senza le persone: esiste un’enorme mole di documentazione su come gli Adivasi considerino simbiotica la relazione con la foresta e la natura – spiega a Osservatorio Diritti Nupur dell’ong Centre for Social Justice – mentre da un lato il governo ha buttato fuori dalla foresta gli indigeni in nome della conservazione, dall’altro sta aprendo la foresta allo sfruttamento di industrie e multinazionali in aperto conflitto la politica forestale nazionale in materia o le regole compensative di imboschimento».
L’impatto dello sfratto e divieto di accesso alle foreste sulla vita e sulla salute – in particolare dei gruppi tribali particolarmente vulnerabili (Pvtg) – sarà enorme, avvertono gli esperti. Le comunità che hanno vissuto nella foresta per centinaia di anni e tradizionalmente dipendono dalle sue risorse naturali per la loro sussistenza, oggi si trovano a essere perseguitate dallo stesso governo e dalle stesse istituzioni incaricate di proteggerne i diritti.
«È una sentenza di morte per milioni di indigeni in India. Un furto di terra dalle proporzioni epiche e una monumentale ingiustizia», ha dichiarato Stephen Corry, direttore generale di Survival International, il movimento mondiale per i popoli indigeni. «Causerà miseria di massa, impoverimento, malattie e morte: una crisi umanitaria urgente che, di certo, non servirà a salvare le foreste che i popoli indigeni proteggono da generazioni».
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India e materie prime: l’accaparramento delle risorse
La domanda sempre crescente di minerali e terreni per industrie, multinazionali e progetti “di sviluppo” nel corso degli anni ha complicato la situazione. Chhattisgar, Jharkhan e Odisha rappresentano il 70 per cento delle riserve di carbone indiane, l’80 per cento di quelle di ferro di alta qualità, il 60 per cento di quelle di bauxite e quasi il 100 per cento di quelle di cromite.
Lo spostamento forzato di queste comunità le ha costrette a trasferirsi in ambienti non familiari e ostili, lontano dal loro habitat tradizionale, aumentando in questo modo la loro vulnerabilità allo sfruttamento, alla povertà, alla malnutrizione cronica e a problemi di salute, tra cui gravi traumi psicologici. La lontananza dal loro ambiente e il divieto di accesso alla foresta, hanno deprivato gli Adivasi del loro cibo, del loro sostentamento e della loro sicurezza.
La ricercatrice: «Privati delle foreste degli antenati»
Una studiosa che ha condotto ricerca sul campo in Chhattisgarh – che preferisce restare anonima vista la delicata situazione attuale – racconta a Osservatorio Diritti della sua esperienza nelle fitte foreste nella regione. È stata testimone dello sfratto di alcune comunità e dell’azione del governo, che li fece insediare più vicini ai villaggi costruendo capanne sotto uno schema economico nazionale.
«Le dimensioni della deforestazione e della perdita di biodiversità nella regione hanno influenzato il loro modo di vivere, la loro salute e il loro benessere in quanto sono stati privati delle foreste in cui risiedevano i loro antenati», commenta.
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Sebbene siano stati sistemati più vicino ai villaggi, racconta la ricercatrice, le loro case sono separate dalle altre comunità creando un ulteriore motivo di emarginazione. Le terre che hanno occupato (dette baija kabja in chattisgarhi) solo in pochissimi casi sono state assegnate loro ai sensi della legge sulle foreste. Non si dedicano alla coltivazione su larga scala e mantengono le foreste “come tali”: le loro divinità ancestrali risiedono sugli alberi che adorano, quindi in qualche modo sono custodi delle aree forestali e non tagliano alberi. Il loro sostentamento nella foresta si concretizza nel tagliare il bambù e venderlo agli agricoltori del villaggio.
«Ogni giorno è una lotta con la burocrazia, in cui gli Adivasi devono destreggiarsi tra i funzionari del dipartimento forestale e il locale Patwari che decide se la terra che hanno acquisito gli possa essere data. Alla luce degli attuali sviluppi – commenta la ricercatrice – credo che l’assenza di rappresentanza del governo nel proteggere la legge sui diritti forestali delle comunità indigene, sembra piuttosto un modo per lasciare un vuoto di potere e silenziare il dissenso, consentendo in tal modo l’agevole acquisizione delle risorse naturali di cui la loro terra è ricca, lasciandola depredare dalle multinazionali e dai governi statali in nome di “attività di sviluppo”. Quello che sta succedendo oggi è avvenuto in modo sistematico nella storia indigena indiana».