Sudan: Omar al-Bashir ordina la repressione delle proteste
Omar al-Bashir risponde con violenza all'ondata di proteste in corso da dicembre. Il dittatore di Khartoum, assediato dalla rivolta per il caro-vita, ha incarcerato oltre 2.400 persone. Morti almeno 51 manifestanti. Ma Italia e Ue continuano a collaborarci. E Qatar, Egitto e Arabia Saudita si stringono nell'alleanza
Il 23 febbraio Omar al-Bashir ha dichiarato lo stato di emergenza in Sudan, ritrovandosi così ad avere mano libera nella repressione del dissenso. Da dicembre 2018, nel paese africano è in corso una protesta che potrebbe abbattere il regime di Omar al-Bashir, ininterrottamente al potere dal 1989. Il dittatore di Khartoum ha risposto a suo modo, con una brutale repressione in cui sono coinvolte non solo forze ufficiali, ma anche una sorta di esercito di agenti in borghese.
La Corte penale internazionale dell’Aja ha spiccato su Bashir due ordini di arresto internazionali, nel 2009 e nel 2010, per crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi a partire dal 2003. I processi sono entrambi in corso.
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Rivolta in Sudan: guerra di numeri su morti e arrestati
Secondo Human Rights Watch, sono almeno 51 le vittime fino ad oggi delle proteste in Sudan. Altre statistiche riportate dal New York Times ne indicano 57. Il governo sostiene invece siano 30. A questi si aggiungono migliaia di desparecidos: la polizia, infatti, trattiene in carcere per tempi indeterminati e senza alcun processo attivisti e manifestanti. A volte vengono poi rilasciati, a volte no.
Intorno a vittime e detenuti c’è una guerra dei numeri tra organi governativi e opposizione. Il 20 febbraio, riporta il Sudan Tribune, il governo ha pubblicato un comunicato stampa per annunciare il rilascio di 2.430 persone.
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Quasi in contemporanea, stava per cominciare una manifestazione annunciata dalla Sudan professional association (Spa), sigla che raccoglie al suo interno insegnati, medici, avvocati, giornalisti, professori universitari, ingegneri, artisti e tutti quei professionisti ai quali è vietato organizzarsi in sindacati. La Spa è una delle principali organizzazioni dietro alle proteste di questi mesi e per questo è ritenuta uno dei nemici di Bashir.
Il ministro dell’Interno Ahmed Bilal Osman ha ribadito la volontà di reprimere «ogni tentativo di portare instabilità» nel Paese con momenti di protesta non autorizzati, come quello della Spa. Ha sostenuto inoltre che la rivolta, nata per richieste legittime, sia ora guidata da «mani invisibili».
Il Sudan media center (Smu), testata sudanese rivolta soprattutto all’estero, ha citato fonti giudiziarie secondo le quali ci sarebbero ancora 220 persone in carcere per motivi politici. Il 20 febbraio è stato un giorno di mobilitazioni generali, con marce di protesta in tutto il Paese per tutta la notte.
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Proteste Sudan: le squadre della morte di Bashir
Africa Eye, programma d’inchiesta della Bbc, grazie a fonti aperte e testimonianze di gruppi d’opposizione è stata in grado di identificare due centri di tortura a Khartoum. Uno si trova a sud di uno degli ospedali principali della città, l’Asia Hospital. L’altro è defilato, appena fuori dalla città.
Chi ci è passato lo chiama “il frigorifero”: un’enorme struttura circolare, con ampio cortile interno, dove i manifestanti sono tenuti in celle refrigeranti. La temperatura è talmente bassa – racconta un sopravvissuto a Bbc – «che dopo 15 minuti è insopportabile». Il freddo è uno strumento di tortura che non lascia segni sul corpo.
La video-inchiesta di Bbc individua anche alcuni commando di uomini in borghese, che si aggirano per la capitale a bordo di pickup Toyota. Sono schierati insieme alla polizia in divisa e secondo la ricostruzione dei giornalisti agiscono come agenti infiltrati. Sono loro a condurre dei blitz che portano alla sparizione dei manifestanti.
Gli ultimi ad essere stati arrestati – riporta il New York Times – sono stati dieci funzionari del partito Umma, “nazione” in arabo, compagine islamica di centro. Le forze di sicurezza sudanesi si sono giustificate sostenendo che gli arresti erano preventivi, allo scopo di fermare una manifestazione non autorizzata.
Economia stretta da indipendenza Sud Sudan e prezzi
Sin dall’indipendenza del Sud Sudan, nel 2011, il Sudan settentrionale si ritrova in condizioni economiche difficoltose. È a sud, infatti, che si concentrano i principali pozzi petroliferi, per il controllo dei quali sono tuttora in corso scontri.
Nel 2018 questa situazione è diventata ingovernabile. La popolazione ha dovuto sopportare la strutturale carenza di pane, il prezzo dell’energia alle stelle, un’inflazione impazzita. A questo si aggiunge il fatto che il governo di Khartoum si porta in dote un debito pubblico di oltre 50 miliardi di dollari con Paesi stranieri.
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A settembre la crisi ha costretto Bashir a un rimpasto di governo: via Bakri Hassan Saleh, dentro Motazz Moussa come nuovo premier. Con il nuovo governo, Bashir ha fatto introdurre anche misure radicali per diminuire le spese dello Stato. Così, ad esempio, sono saltati gli incentivi pubblici per l’acquisto di carburante (che è diventato otto volte più caro del periodo pre-crisi) per le aziende del Paese, molte delle quali oggi sono in procinto di chiudere. In questo scenario i primi ad andarsene sono stati gli investitori stranieri.
La rivolta, diffusa ormai in tutto il Paese, ha portato allo sciopero anche i marittimi di Port Sudan, in corso dal 18 febbraio. Port Sudan è il primo porto del Paese e il primo ingresso di nuova merce e generi di consumo. La sua paralisi equivale a una paralisi dell’intero Paese.
— SudaneseMediaCentre (@SudanSMC) 21 febbraio 2019
La crisi economica ha accentuato anche il problema delle minoranze nelle regioni del Darfur, Nilo Blu e Kordofan. Alcune delle milizie armate di queste regioni si muovono lungo il confine con Chad e Libia per trafficare migranti e rapire civili.
Nonostante questo, il capo dei servizi segreti sudanesi (Niss) Salah Gosh ha respinto ogni ipotesi di creare un governo alternativo:
«Ogni iniziativa per risolvere la crisi deve basarsi su ciò che ora è legittimo», quindi sul governo di Bashir.
Le elezioni nel Paese sono formalmente previste per il 2020.
Le relazioni internazionali di Karthoum
Omar al-Bashir ha sostenuto pubblicamente che la crisi economica del Paese è responsabilità delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Quella delle proteste, invece, graverebbe sulle spalle delle popolazioni del Darfur, dove la minoranza locale combatte da anni contro l’élite araba al potere nel governo centrale.
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Ai tempi dell’amministrazione Obama, Washington aveva cominciato a negoziare l’uscita del Sudan dalla blacklist dei Paesi finanziatori del terrorismo, con conseguente fine delle sanzioni. Khartoum ne fa parte, tra i diversi motivi, per aver ospitato Osama Bin Laden, il leader di Al Qaeda, tra il 1992 e il 1996.
L’assistente speciale del presidente Donald Trump, Cyril Sartor, in una missione di tre giorni a Khartoum ha dichiarato che se le repressioni continueranno, il Paese non potrà uscire dalla lista nera dei Paesi che sponsorizzano il terrorismo. Tra i sostenitori di Bashir, invece, ci sono Qatar, Egitto e Arabia Saudita, che continuano a fornire aiuti economici alla dittatura.
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L’Unione europea, tra le forze occidentali, ha un atteggiamento più equivoco. Ha una missione permanente nel Paese che ha in corso progetti, ad esempio, nell’ambito della gestione dei migranti, l’ultimo dei quali annunciato a luglio per fermare «l’immigrazione illegale» (progetti finanziati nell’ambito del Trust Fund Europa-Africa).
Paesi membri come l’Italia hanno poi in essere accordi di collaborazione informale con le forze di polizia, strumento attraverso cui è possibile organizzare rimpatri forzati di migranti irregolari dall’Italia al Sudan. A gennaio 2018 l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha ottenuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo l’ammissibilità del suo ricorso a nome di alcuni migranti sudanesi rimpatriati a Khartoum.