
India: gli abitanti del Kashmir pagano caro lo scontro col Pakistan
Mentre le ultime notizie dall'India riferiscono oggi che il Pakistan ha abbattuto due jet indiani in Kashmir, la popolazione locale racconta di essere vittima di violenza e discriminazioni crescenti. Ecco cosa sta accadendo in questa regione himalayana contesa da Pakistan e India
da Nuova Delhi, India
Due settimane fa un giovane militante kashmiri si è fatto saltare in aria contro un convoglio che trasportava truppe indiane nel distretto di Pulwama, in Kashmir, nel peggior attacco alle forze indiane dall’inizio della militanza.
Il premier dell’India, Narendra Modi si è precipitato ad accusare il Pakistan, storico nemico, di dare protezione e gruppi terroristici internazionalmente riconosciuti come Jaish-el-Mohammed (JeM), che ha rivendicato l’attacco dove sono rimasti uccisi 42 soldati delle forze speciali.
Il giorno successivo, negozi, case e auto di kashmiri musulmani sono stati dati alle fiamme dalla maggioranza hindu a Jammu, divisione dello stato federato di Jammu e Kashmir, dove per cinque giorni è stato imposto il coprifuoco.
Leggi anche: Caste indiane: gli “intoccabili” paria rivendicano i propri diritti

India – Pakistan: le elezioni alimentano la tensione
Alle dichiarazioni violente e all’escalation di minacce da un lato all’altro del confine disputato, la Linea di Controllo, dopo l’attacco sono seguite le notizie di violenze e linciaggi contro studenti e commercianti kashmiri in territorio indiano, polarizzando gli animi nel clima di isteria che si respira dopo Pulwama, a meno di due mesi dalle elezioni politiche.
Modi non vuole apparire debole nella delicata questione Kashmir, il territorio conteso da oltre 70 anni con il Pakistan, capace di smuovere gli animi della destra nazionalista che il suo partito rappresenta.
Iscriviti alla newsletter di Osservatorio Diritti
India: violenza sulla popolazione
«Incidenti come questo sono già accaduti in passato, non è un caso isolato piovuto dal cielo. Gli studenti kashmiri perseguitati e picchiati non sono una novità. Quando studiavo in Rajastan ho già vissuto la paura di uscire, come in questo periodo. Sono chiuso in casa da 4 giorni», racconta K., uno studente kashmiri 23enne che frequenta l’università a Greater Noida, a sudest di Delhi, parte della capitale ma nel territorio dell’Uttar Pradesh (Up), il più popoloso e tra i più arretrati stati indiani dove le tensioni tra musulmani e hindu sono spesso state violente.
«Un amico di un amico è stato attaccato dalla folla qualche giorno fa ed è scappato temendo per sua incolumità: ora si trova da amici a Delhi, al sicuro. “Cane Kashmiri, ti uccideremo” ci urlano, persone che conosco sono state prese di mira o abusate dopo l’attacco di Pulwama», racconta ancora K. «Le proteste, qui come in altre parti di Delhi, sono state promosse da studenti e organizzazioni di destra, ma a Noida, che è in Up ed è la roccaforte del Bjp (il Bharatiya Janata Party, il partito del premier Narendra Modi, che governa l’Up, ndr), sono particolarmente violente, per questo ho paura di uscire».
Leggi anche: Diritti Lgbt: India, strada in salita per riconoscimento transessuali

Le proteste anti-Pakistan e gli studenti di Dehradun
Nei giorni successivi all’attacco di Pulwama, marce e fiaccolate anti-pakistane sono state organizzate in varie città dell’India, mentre in alcuni distretti gli studenti kashmiri sono stati costretti ad abbandonare i dormitori e i campus. Molti si sono dovuti barricare nelle proprie stanze per paura di essere presi di mira dai gruppi studenteschi di destra – Abvp, Bajrang Dal e Vhp – che avevano circondato i campus chiedendo l’espulsione degli allievi kashmiri.
Sono circa 3.000 gli studenti della valle che studiano a Dehradun, capitale dell’Uttarkhand, e in centinaia hanno lasciato la città nell’ultima settimana temendo le violente rappresaglie dilagate dopo i fatti di Pulwama, aiutati nella fuga da organizzazioni caritatevoli della comunità Sikh, che li hanno scortati fino in Kashmir.
«Le folle che usano il patriottismo come scusa per cacciare i kashmiri dalle loro case, dai negozi e dai campus stanno infrangendo i valori fondamentali della Costituzione indiana. Siamo in un momento pericoloso e le autorità devono fare tutto il possibile per assicurare lo stato di diritto», ha affermato Aakar Patel, capo di Amnesty India.
«Qualche tempo fa un ragazzo kashmiri nella mia università è stato picchiato quasi a morte, è tornato in Kashmir e si è unito alla militanza. All’epoca si respirava il clima feroce di questi giorni: non poter uscire di casa se sei, o se anche solo sembri, kashmiri; avere paura di essere uccisi. Oggi la situazione è quasi la stessa, ma con più enfasi e atrocità», dice K.
«Non penso che ci si fermerà qui, dicono che le cose torneranno alla normalità in una settimana o giù di lì, ma dal punto di vista psicologico questa paura e questo clima di odio non passeranno così facilmente. Non penso sarà mai lo stesso. Almeno per me, ci sarà sempre questa paura, un qualcosa che ti impedisce di parlare con la gente, uscire, mescolarsi agli altri, parlare di qualsiasi cosa».
Leggi anche: Traffico di esseri umani fa razzia di bambini
Kashmir: studenti a rischio in territorio indiano
Dopo una settimana di silenzio, il premier Modi ha condannato gli attacchi contro gli studenti della valle, ma il clima che si respira in India in questi giorni è teso e, come altre volte in passato, le minacce volano da entrambi i lati della Linea di Controllo.
«Gli studenti sono obiettivi facili: vivono in un ambiente eterogeneo in cui sono esposti a particolari ideologie, che a un certo punto si scontrano con l’ideologia kashmiri: dal confronto nasce lo scontro tra le ideologie e narrazioni opposte, antitetiche. È proprio da questa interazione che gli studenti diventano facili bersagli», spiega K. «È un attacco alla comunità di tutti gli studenti e al Kashmir. La paura di essere un bersaglio rimarrà. È facile per un indiano identificare un kashmiri, si distingue in un baleno, e quando sei circondato dalla folla, c’è poco da fare. Sono tempi spaventosi».
«Prendi per esempio Afzal Guru (il controverso caso del separatista kashmiri accusato dell’attacco al Parlamento indiano nel 2001, ndr): i kashmiri credono sia innocente, ma è stato processato dall’India, che l’ha impiccato per soddisfare il desiderio delle masse. Se prendi di mira le persone in modo che la coscienza collettiva indiana possa sentirsi meglio, nel mirino potrebbe finire chiunque: dalit (il gradino più basso della stratificazione sociale indiana, ndr), musulmani, adivasi (tribali, ndr).
La questione del Kashmir è diversa, è diventata un’industria nel corso degli anni: il Bjp ha conquistato il suo bacino elettorale in nome del Kashmir, incolpando il Pakistan anche per il maltempo, e questa strategia funziona, si vende bene in India. Non c’è niente di nuovo, è successo prima e succederà di nuovo», commenta K.
Leggi anche: India: 12mila contadini suicidi ogni anno
Radicalizzazione e militanza giovanile
Quando gli si fanno domande sulla militanza, la sua voce si fa cupa. «Quanta violenza è stata inflitta ai kashmiri nel corso degli anni? Non sorprende che vogliano uccidere i soldati indiani che hanno inflitto loro dolore, morte, violenza. Hanno ripetutamente preso di mira donne e bambini. Ogni giorno ci sono stati 2-3 funerali negli ultimi anni: è inumano, ti aspetti che i kashmiri non si vendichino? Si può rimanere in silenzio per sempre? È una guerra che l’India ha dichiarato sui kashmiri indifesi. Puoi solo cercare di sopravvivere per un altro giorno, ed è quello che stanno facendo i kashmiri. Sono nato nel 1995, quando la guerra e i massacri erano più intensi. Dal 2001 fu raggiunta un po’ di pace secondo l’India, ma si è raggiunta con l’uccisione di militanti e ribelli e reprimendo i civili. E poi le crisi del 2008-2009, del 2016-17, non c’è più stata pace dopo: il Kashmir è stato sempre sul filo del rasoio», riassume K.
Nell’estate del 2016 l’uccisione del giovane comandante del gruppo armato Hizbul Mujahideen,Burhan Wani, ha riacceso la miccia e ha spinto molti giovani a unirsi alla militanza. L’attentatore di Pulwama aveva 22 anni. Come K., era cresciuto negli anni della lotta armata, del coprifuoco perenne, degli stupri sulle donne, gli anni in cui il governo indiano ha reso ciechi migliaia di civili usando “armi non letali”, i pellet.
Leggi anche: India: le tigri sfrattano gli indigeni
La guerra del Kashmir non è una guerra di religione
«Quando l’ingiustizia ti arriva vicino, qual è la reazione di un giovane? Uscire e cercare vendetta. Voglio solo tornare e combattere i militari. La libertà è la decisione di alzarsi e lottare per la propria liberazione. Molte persone non hanno idea di cosa sia la guerra del Kashmir, pensano che sia una guerra di religione, ma non è così. È contro gli abusi quotidiani e il confronto con la violenza che combattiamo. Un giorno ti alzi e combatti, in quel giorno sei veramente libero. Ma si raggiunge sempre un’impasse. Non puoi alzarti e combattere per i tuoi diritti in Kashmir, non c’è spazio per il dissenso: non possiamo organizzare proteste, radunarci, esprimere il nostro pensiero. La violenza è tutt’intorno, tutto ciò che puoi fare è resistere».