Donne e carcere: popolazione carceraria femminile vittima di discriminazione
Le donne carcerate sono condannate a una doppia pena: circa 2.400 persone detenute in piccoli spazi all'interno di istituti maschili per mancanza di spazi e fondi. E poi ci sono le difficoltà legate ai figli, alla famiglia e alla burocrazia per poter cercare un riscatto attraverso il lavoro
In una popolazione di circa 60 mila carcerati, solo il 4% è donna, 2.400 persone che vivono in piccoli spazi dentro istituti maschili. «È una discriminazione di genere, così come esiste nella società civile così si rispecchia nelle carceri. Come sempre le leggi ci sono, ma si fa fatica ad applicarle», esordisce Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano al convegno sulla detenzione femminile nel carcere di San Vittore a fine gennaio.
Secondo il magistrato le detenute soffrono una doppia pena, perché il basso numero delle detenzioni spesso porta a dirottare i fondi nei grandi reparti maschili, destinando poche risorse economiche ai settori femminili. «È da vent’anni che il dato nazionale sulle donne in carcere non aumenta, ma nemmeno diminuisce. I reati commessi sono sempre legati al patrimonio, spesso la donna delinque per cultura o per necessità. L’indole femminile non porta a delinquere contro la persona, però questo non basta per convincere molti miei colleghi a destinare alle donne le misure alternative fuori dal carcere», sottolinea Di Rosa.
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Carceri femminili in Italia: vecchi istituti e pochi fondi
Solo 5 istituti su 200 sono destinati esclusivamente alle donne, che spesso sono rinchiuse in vecchi reparti precedentemente maschili. Mancano spazi dedicati alle attività femminili e alle problematiche di genere.
«Gestire un reparto femminile è molto complesso, le donne difficilmente riescono a sottostare alle regole imposte dall’alto. Hanno necessità specifiche, come quelle della salute, che richiedono fondi e spesso questi fondi non ci sono. Dobbiamo puntare all’esternalizzazione della pena, rimettere le donne nella società rafforzando il loro ruolo in famiglia e rendendole consapevoli del reato. Ma non è facile e spesso siamo lasciati soli», denuncia Giacinto Siciliano, direttore del carcere di San Vittore.
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Spesso inoltre gli spazi ricreativi e le sale destinate alle visite mediche sono nei reparti maschili. «A Bollate l’ambulatorio ginecologico l’hanno messo nella sezione maschile, noi quindi dobbiamo chiedere di essere accompagnate sia da una poliziotta del nostro reparto sia da uno della parte maschile», spiega una detenuta presente al convegno.
Storie di detenute: famiglia e figli per uscire dal buio
«Non ho visto i miei figli per 3 anni, non me li facevano vedere e io non stavo bene. Le medicine che mi davano mi tenevano in uno stato di malessere costante. Adesso lavoro, ho smesso le terapie farmacologiche e mi sento libera. Posso finalmente prendere in mano la corda e tirarla per uscire da qui», testimonia Karima Joumadi, detenuta nel carcere milanese e da un anno partecipante attiva del progetto Donne oltre le mura promosso da regione Lombardia insieme ad altri partner già presenti nelle carceri di Milano, Bollate e Como.
La somministrazione di farmaci, utilizzati per tranquillizzare i detenuti, e l’impossibilità di vedere i figli oltre alle 8 ore mensili per i colloqui, portano spesso la donna a chiudersi e rompere i rapporti familiari.
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«La maggior parte delle detenute ha figli all’esterno, la famiglia per loro è la salvezza. Dobbiamo insistere perché gli articoli del codice penitenziario destinati alle misure alternative fuori dal carcere siano applicati. Una donna si può salvare quando viene reinserita nella rete sociale da cui proviene», sostiene Cecco Bellosi, coordinatore della comunità Il Gabbiano che da anni aiuta il reinserimento dei detenuti con progetti di housing sociale nella città metropolitana di Milano.
L’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario prevede la presenza negli istituti dei bambini, in strutture dedicate che siano meno impattanti a livello emotivo delle carceri classiche. In Italia ci sono circa 50 madri detenute con 60 figli, ma le case di reclusione realizzate per essere i giusti luoghi di crescita per i bambini sono solo quattro in tutta Italia.
«Quando una donna realizza che la propria detenzione è una privazione di libertà anche per i propri figli, si sente vittima e inizia un percorso di disimpegno morale che la porta ad allontanarsi dai figli stessi», puntualizza il professor Ivo Lizzola del dipartimento di Pedagogia generale dell’Università di Bergamo.
Popolazione carceraria femminile: salvarsi con il lavoro
Un altro aiuto fondamentale per le donne detenute è il lavoro, che spesso manca o è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.
«Appena entri in carcere vieni privata di tutto, ti fanno tornare bambina. Per fare qualsiasi cosa devi fare una domandina, aspettare che ti rispondano e sperare di poter lavorare per qualche ora. Noi donne siamo abituate a lavorare, rimanere senza nulla da fare è una doppia pena», commenta Alba Lenor Sevillano, da 7 anni reclusa e ora anche lei inserita nel progetto lavorativo Donne oltre le mura.
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A Simona (il nome è di fantasia), detenuta da un anno a Bollate, il lavoro ha consentito di rimettersi in discussione e di mostrare al figlio la propria autonomia: «Quando mi hanno confermato la condanna a 5 anni mio figlio si è spaventato. Non sapevo come tranquillizzarlo e mi sentivo persa. Ora lavoro, mi sento realizzata e lui segue con me la mia detenzione. Ma ci sono donne che non ce la fanno, che si rinchiudono in se stesse e abbandonano i figli».
Detenzione femminile: la lotta con la burocrazia
Le difficoltà burocratiche di accedere dentro le mura e la crisi economica minano la possibilità per le aziende e i privati di portare lavoro ai detenuti e questo accade ancora di più nelle sezioni femminili.
«Dicono che amministrare 100 detenute sia peggio che gestire un carcere intero. Io lavoro con le donne da oltre vent’anni e ogni giorno è una lotta, burocratica e psicologica. Dobbiamo portare il lavoro fuori da qui, far lavorare le detenute nella società perché possano davvero reinserirsi», dice Luisa Della Morte, responsabile della cooperativa Alice.
Gli operatori al Governo: «Ridiamo dignità ai detenuti»
«Abbiamo un articolo della Costituzione che parla di rieducazione e questa si può fare quando si dà dignità alla persona detenuta. Ma come facciamo noi, dell’amministrazione penitenziaria, a portare dignità quando gli ultimi decreti legge del Governo disumanizzano, quando l’Europa ci condanna per il sovraffollamento e i politici pensano di cambiare le cose costruendo nuove carceri?», denuncia Luigi Pagano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria.
Se il passato Governo aveva realizzato una nuova riforma dell’ordinamento penitenziario, che porta ad aumentare le misure alternative anche per le detenute madri, il governo Conte ha cambiato rotta programmando fondi per ampliare le carceri. Il mondo degli operatori non è soddisfatto e la situazione di stallo rimane.
Convegno molto interessante e tanto lavoro da fare ancora, dobbiamo trovare una sinergia efficace per favorire percorsi come quelli di donne oltre le mura