Iraq: Isis sconfitto, ma dopo un anno ci sono 2 milioni di sfollati
Dall'inizio del conflitto con l'Isis in Iraq, nel 2014, sono stati sfollati oltre 5,8 milioni di iracheni. Oggi, che l'Isis è sconfitto, ne restano ancora quasi 2 milioni. Lo rivela un report dell'agenzia Onu per le migrazioni-Missione in Iraq, che ha fornito aiuti a milioni di persone in tutti i 18 governatorati del Paese
Quasi 2 milioni di sfollati. È questa l’eredità lasciata dal cessato conflitto con l’Isis in Iraq. La guerra civile in Iraq è iniziata nel 2014, quando l’Isis aveva lanciato un’offensiva in Siria e Iraq, occupando gran parte del territorio iracheno, dove a giugno prese poi il controllo di Mosul, seconda città del paese, fino a proclamare la costituzione del Califfato e la designazione del suo califfo, Al-Baghdadi, come capo dei musulmani nel mondo.
Tre anni di conflitto, concluso a dicembre 2017, che lascia oggi milioni di sfollati che non sono ancora in grado di ridurre la propria vulnerabilità, l’impoverimento e l’emarginazione causati dagli spostamenti forzati durante il conflitto.
A rivelarlo è l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) – Missione in Iraq, che ha fornito aiuti a milioni di persone in tutti i 18 governatorati dell’Iraq e ancora continua a monitorare – oggi, nel post-conflitto – la situazione.
Secondo il report redatto dall’Oim, dal 2014, a causa del conflitto, sono stati sfollati oltre 5,8 milioni di iracheni: il picco di 570 mila famiglie circa (3,42 milioni di individui) si è toccato ad aprile 2016, per poi scendere a quota 317 mila famiglie (1,9 milioni di persone) a settembre di quest’anno, a quasi un anno di distanza dalla fine del conflitto, dichiarata a dicembre 2017.
Popolazione e territorio colpiti dal conflitto con l’Isis
Benché sia difficile individuare cause e spostamenti reali degli iracheni, dal conflitto ad oggi, l’Oim classifica alcune macro-ragioni di quello che definisce come “dislocamento prolungato“, ovvero la condizione degli sfollati interni che non sono in grado di “sanare” la propria situazione e tornare nella propria terra da almeno tre anni. In due terzi dei paesi monitorati per sfollamenti indotti da conflitti nel 2014, almeno il 50% degli sfollati interni è rimasto nella condizione di sfollato per oltre tre anni.
Gli ostacoli vanno dagli alloggi, dopo la distruzione delle proprie abitazioni, alla mancanza dei servizi, ma non mancano problemi psico-emotivi dovuti al cosiddetto stress post-traumatico, in particolare per ciò che riguarda la fascia di popolazione infantile.
A farne le spese maggiori sono le fasce più deboli della popolazione, come anziani, famiglie di donne e bambini, malati cronici, individui traumatizzati e appartenenti a gruppi etno-religiosi che sono stati storicamente emarginati o esclusi all’interno di una società più ampia.
«Il fatto che questi problemi persistano molto tempo dopo la fine del conflitto – si legge nel report dell’Oim – è un’indicazione che il dislocamento provocato dal conflitto si protrae in parte perché lo status quo ante era di per sé ingiusto e che affrontare questi problemi richiede un approccio trasversale che abbraccia gli aspetti umanitari, lo sviluppo, la costruzione della pace e i settori della sicurezza».
Sfollati interni: dati e composizione dal 2014 al 2018
Il report dell’Oim fornisce una disamina dettagliata degli sfollati iracheni. Il 60% proviene dal governatorato di Ninewa, seguito dal governatorato di Salah al-Din (13%) e Anbar (12%). Kirkuk, Diyala e, in misura minore, Baghdad e Babilonia, completano l’elenco dei governatorati da cui le persone si sono trasferite con la forza durante la crisi.
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A partire da settembre 2018, tuttavia, la maggior parte delle persone sfollate da Anbar sono tornate ai luoghi di origine, mentre i tassi di ritorno per gli sfollati di Ninewa rimangono bassi.
Una possibile ragione per questo diverso modello probabilmente si riferisce a quando, in particolare, i distretti all’interno di questi governatorati sono stati riconquistati dalle forze irachene. Grandi porzioni di Anbar sono state riconquistate dall’Isis nel 2015.
In contrasto, le aree urbane di Ninewa non erano facilmente accessibili agli sfollati interni fino a un anno fa, inclusa la città di Mosul, la seconda più grande città in Iraq. Al culmine del fenomeno, nell’aprile 2016, i campi istituiti per questa crisi hanno protetto solo il 12% degli sfollati interni.
Questo rapporto è aumentato al 30% a partire da settembre 2018, a causa di un significativo afflusso di sfollati interni ai campi fino alla fine del 2017 durante le ultime fasi del conflitto. In termini di aree di sfollamento, la regione del Kurdistan in Iraq e i governatorati di Baghdad, Anbar e Ninewa hanno storicamente ospitato un gran numero di sfollati durante questa crisi.
A settembre 2018, la regione del Kurdistan in Iraq rimane l’area che ospita il maggior numero di sfollati, seguito dal Governatorato di Ninewa. Popolazioni che comprendono più dei due terzi di tutti gli sfollati interni. In base ai dati raccolti nell’agosto 2018, quasi i due terzi degli sfollati, nel complesso, hanno intenzione di rimanere nei loro luoghi di dislocamento per i prossimi 12 mesi.
Case distrutte e nessuna sicurezza dopo gli attentati Isis
Case distrutte, mancanza di attività generatrici di reddito, mancanza di servizi di base, discriminazione e scarsa percezione di sicurezza. Sono alcune delle ragioni che portano gli sfollati a non tornare nei propri luoghi di origine, nonostante la fine del conflitto. La distribuzione di queste motivazioni definisce i contorni del fenomeno.
Quando viene chiesto di elencare i tre principali motivi per cui non hanno intenzione di tornare ai loro luoghi di origine all’interno il prossimo anno, il 41% degli sfollati interni elenca la propria casa distrutta o danneggiata come un fattore determinante in questa decisione.
Ma non solo: la mancanza di attività generatrici di reddito nel luogo di origine è stata citata dal 21% degli sfollati intervistati. Siamo a quota 9%, invece, per quanto riguarda la fornitura di servizi di base; si sale al 17% per la paura di discriminazione. Circa il 14% degli sfollati interni potrebbe essere involontariamente bloccato nello spostamento perché le autorità non permetterebbero i ritorni nei loro luoghi di origine a causa di problemi di sicurezza, mentre il 26% cita una mancanza di forze di sicurezza nelle loro aree di origine.
L’isis è sconfitto, ma resta lo stress post-traumatico
Le violenze estreme perpetrate dall’Isis, e le conseguenti operazioni militari per eliminarle, hanno avuto un forte impatto su grandi fasce della popolazione ed è probabile che in alcuni continuino a verificarsi sintomi di trauma e disagio psicologico, compreso il disturbo post-traumatico da stress.
Un recente studio sui bambini sfollati e le loro famiglie ha rivelato che i bambini colpiti da questo conflitto hanno vissuto qualche forma di trauma e sofferenza psicologica. I sintomi più gravi sono stati riscontrati in bambini che vivevano sotto l’Isis per lunghi periodi rispetto a quelli che erano stati sfollati ancora prima nel conflitto. Inoltre, i genitori hanno riferito di essere preoccupati per il benessere dei loro figli e per gli effetti che il trauma potrebbe avere su di loro.
Il 31% degli sfollati interni indica la paura o il trauma come motivo per non tornare ai loro luoghi di origine entro il prossimo anno. Questo è più diffuso tra gli sfollati interni dal governatorato di Diyala. Inoltre, il 13% degli sfollati segnala che i loro bambini (di età inferiore a 18 anni) mostrano segni di disagio psicologico. Gli sfollati originari di Kirkuk denunciano l’angoscia tra i loro figli due volte più frequentemente rispetto ad altri governatorati.
Guerra civile in Iraq: il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi
Il conflitto in Iraq ebbe i suoi esordi nell’estate del 2014, quando l’Isis lanciò un’offensiva in Siria e Iraq, occupando gran parte del territorio iracheno, dove a giugno prese il controllo di Mosul, seconda città del paese. L’improvvisa offensiva al Nord dell’Iraq rafforzò notevolmente l’esercito dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che riversò uomini e mezzi dal confine siriano. Benché, infatti, le forze armate irachene fossero più numerose dei miliziani islamisti, l’offensiva dell’Isis costrinse il governo iracheno a dichiarare lo stato di emergenza. Da quel momento la guerra divenne regionale, coinvolgendo Siria e Iraq, ormai privi di una reale frontiera tra i due paesi.
Il 29 giugno 2014, Da’esh proclamò la nascita del Califfato tra Siria e Iraq. In un audio postato su internet, l’Isis designa il suo capo Abu Bakr al-Baghdadi “califfo”, ovvero il capo dei musulmani nel mondo.
«In una riunione, la shura (consiglio di Stato islamico) ha deciso di annunciare l’istituzione del Califfato islamico e di designare un Califfo per lo Stato dei musulmani – ha detto nel messaggio audio su internet Abu Mohammad Al-Adnani, portavoce dell’Isis – Lo sceicco jihadista al-Baghdadi è stato designato califfo dei musulmani».
Dalla presa di Mosul all’annuncio della vittoria sull’Isis
L’avanzata dell’Isis nel paese iracheno proseguì, fino a quando – nell’ottobre del 2016 – ebbe inizio l’offensiva irachena per riprendere Mosul, che determinò di fatto l’avvio delle operazioni decisive per liberare totalmente lo stato iracheno dall’Isis.
La guerra civile terminò nel dicembre del 2017 con la caduta di Abu Kamal, ultima grande roccaforte dell’Isis sul confine Siria-Iraq. L’annuncio ufficiale è del 9 dicembre del 2017.
«Le nostre forze controllano completamente la frontiera Iraq-Siria e annuncio dunque la fine della guerra contro Daesh – sono le parole del primo ministro iracheno Al-Abadi – Le nostre forze hanno assunto il pieno controllo dei confini con la Siria».
È con il recupero degli ultimi territori controllati dagli jihadisti, le province occidentali di Ninive e Al Anbar, che si dichiara chiusa la guerra contro l’Isis.
«È avvenuta la liberazione di tutti i territori dell’Iraq dalle bande di Daesh – afferma il vice comandante delle forze irachene congiunte, Abdelamir Yarala – e le nostre forze controllano le frontiere fra Iraq e Siria dal varco di frontiera di Al Walid a quello di Rabia».