Israele e Palestina: Airbnb al centro del conflitto nei territori occupati

Airbnb decide di ritirare gli annunci dagli insediamenti israeliani in Cisgiordania. E arrivano critiche violente da Israele, denunce di discriminazione e una campagna di boicottaggio. In occasione della Giornata della solidarietà con il popolo palestinese, ecco una ricostruzione degli ultimi avvenimenti e della storia in cui si inserisce questa nuova "guerra"

Oggi è la Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese, indetta nel 1977 dall’Assemblea generale dell’Onu con la Risoluzione 32/40B. Ma sebbene siano ormai passati 71 anni dalla nascita dello Stato di Israele, nel 1947, e oltre 50 anni di occupazione israeliana in Palestina, iniziata con la Guerra dei sei giorni del 1967, la situazione non si sblocca. Tanto che il 13% degli abitanti della Cisgiordania, secondo l’ong Peace Now, vive negli insediamenti israeliani.

Ebbene, in questo contesto è scoppiato nei giorni scorsi un caso internazionale che vede come protagonisti il colosso internazionale degli affitti online, Airbnb, e lo Stato di Israele. La società statunitense, infatti, lo scorso 19 novembre ha diffuso un comunicato stampa in cui rendeva pubblica la sua decisione di ritirare gli annunci di abitazioni situate negli insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Guerra tra Israele e Airbnb al tribunale di Gerusalemme

Quattro avvocati israeliani, Asaf Shubinsky, Chen Shomart, Hagai Vinitzky e Aviel Flint, hanno intrapreso una causa collettiva presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme contro la società statunitense, con sede a San Francisco, come protesta contro la decisione di Airbnb. Gli avvocati hanno impostato la causa sulla base di una legge del 2000, modificata nel 2017, che punisce i casi di discriminazione nell’offerta di prodotti e servizi. Insieme ad Airbnb sono state prese di mira anche le ong israeliane Kerem Navot e Human Rights Watch, entrambe accusate di aver sponsorizzato la decisione della compagnia.

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Un villaggio nei pressi di Ramallah – Foto: @Irene Masala

La causa, riferisce il quotidiano israeliano Jerusalem Post, è stata presentata a nome di Ma’anit Rabinovich, un residente israeliano dell’avamposto (outpost) di Kida che aveva regolarmente registrato la propria abitazione sulla piattaforma di Airbnb. L’utente avrebbe saputo della rimozione in seguito al polverone causato dall’argomento sui social media, senza nessuna notifica diretta da parte dell’azienda. Gli utenti colpiti dalla decisione di Airbnb sono circa 200 in tutta la Cisgiordania e sono stati invitati a unirsi alla causa.

Nella petizione presentata alla corte si dichiara che la discriminazione effettuata dal colosso online è stata «particolarmente grave e oltraggiosa» in quanto riferita solo alla Cisgiordania e non estesa anche ad altri territori contesi come il Tibet, il Nagorno-Karabakh e la parte settentrionale di Cipro, dove Airbnb continua a operare senza problemi.

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Israele risponde con una campagna di boicottaggio

Il ministro del Turismo israeliano Yariv Levin ha dichiarato l’intenzione di limitare la capacità di Airbnb di lavorare all’interno di Israele. Da diversi esponenti della classe politica israeliana è inoltre arrivata una chiamata al boicottaggio della compagnia, con invito a preferire a essa altre piattaforme di hosting online, come per esempio Booking.com.

La campagna, che ha visto numerosi utenti disattivare i propri account, ha ricevuto adesioni anche Oltreoceano: nella città di Beverly Hills, in California, è stata approvata all’unanimità una risoluzione che definisce la decisione della compagnia come discriminatoria e piena di odio e pregiudizio. In una dichiarazione rilasciata a nome della città, il sindaco Julian Gold ha definito deplorevole l’azione di Airbnb. Il vice sindaco, John Mirisch, ha quindi aggiunto che Airbnb non sarà benvenuta a Beverly Hills finché le sue politiche si baseranno su doppi standard antiebraici.

Perché Airbnb è uscita dalla Cisgiordania

Il 20 novembre scorso, il giorno dopo la pubblicazione del comunicato da parte di Airbnb, l’ong Human Rights Watch ha pubblicato un report di 65 pagine creato insieme alla ong israeliana Karem Navot dal titolo Bed and Breakfast on Stolen Land.

Nel rapporto si elencano tutti gli annunci turistici presenti all’intero degli insediamenti israeliani, pubblicati su piattaforme come Airbnb e Booking.com, sottolineando il ruolo di azioni commerciali come questa nel sostenere e legittimare in qualche modo l’occupazione israeliana di quei territori.

La decisione di Airbnb arriva perciò dopo anni di pressioni da parte di ong come Jewish Voice for Peace, che sta promuovendo anche una raccolta firme contro Booking.com per le stesse ragioni, e dalla campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni), che dopo la decisione di Airbnb ha parlato di una «parziale vittoria dei diritti umani».

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Abu Dis, zona E1, Palestina. Foto: @Irene Masala

La spinta finale sarebbe però arrivata dalla possibilità di essere inserita nella “lista nera” stilata dalle Nazioni Unite che comprende le società che operano e lucrano all’interno degli insediamenti israeliani. L’ufficio dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, dovrebbe infatti pubblicare una banca dati contenente i nomi delle aziende che svolgono attività commerciali in zone che si trovano al di là dei confini stabiliti nel 1967, come Gerusalemme est, le Alture del Golan e la Cisgiordania, traendo così profitto dall’occupazione.

Cartina di Israele e Palestina (al centro la Cisgiordania)

Anche Who Profit?, centro di ricerca indipendente che ha come obiettivo quello di evidenziare i legami tra il settore privato nell’economia di occupazione israeliana, aveva preso di mira Airbnb dedicandogli un report per esporre tutti gli interessi dell’azienda all’interno dei territori occupati.

Tutte queste pressioni sarebbero alla base della decisione della società statunitense, che aggiunge di aver deciso di boicottare anche la Crimea dopo l’occupazione da parte della Russia.

Conflitto Israele-Palestina e la scelta della società Usa

Airbnb ha spiegato la propria decisione di non voler più operare all’interno degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, mantenendo comunque i propri servizi in città come Tel Aviv, Haifa e Nazaret, motivandola con la volontà di rimuovere le inserzioni relative a zone fuori dalla green line in quanto al centro della disputa tra israeliani e palestinesi.

«Sappiamo che le persone non saranno d’accordo con questa decisione e capiamo la loro prospettiva. È una questione controversa. Ci sono molti punti di vista forti in relazione alle terre che sono state oggetto di dispute storiche e intense tra israeliani e palestinesi in Cisgiordania», si legge nel comunicato stampa pubblicato sul sito di Airbnb.

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Un villaggio nei pressi di Ramallah – Foto: @Irene Masala

Un po’ di storia: in cerca di pace dalla Guerra tra Israele e Palestina del 1967

Nessuna precisazione da parte di Airbnb, invece, sugli annunci relativi ad abitazioni israeliane nella parte Est di Gerusalemme e sulle Alture del Golan. E dopo 50 anni di occupazione israeliana, iniziata con la Guerra dei sei giorni del 1967, la possibilità di creare due stati, uno arabo e uno ebraico, prospettata e auspicata dalla Risoluzione 181 con un piano di spartizione della Palestina, sembra più lontana che mai.

La continua espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, oltra a violare il diritto internazionale, rende di fatto impossibile una continuità territoriale dei territori palestinesi e, di conseguenza, la possibilità di creare su quei territori uno stato nazionale sovrano e indipendente da Israele.

La questione degli insediamenti, in particolare l’area E1 che si estende nella parte Est di Gerusalemme e nella quale vivono circa 200.000 israeliani, è di vitale importanza per lo stato ebraico ed è considerata uno dei principali ostacoli al raggiungimento di un accordo di pace tra Israele e Palestina.

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