Violenza di genere, il piano nazionale all’esame dell’Università di Padova
Il centro di ateneo per i diritti umani dell'Università di Padova analizza i dati sulla violenza di genere e passa al setaccio il piano di azione 2015-2017: «Una dichiarazione d'intenti più che un piano, con una struttura estremamente deficitaria»
La violenza maschile sulle donne non è un fenomeno episodico, ma la manifestazione di un rapporto diseguale, una vera e propria questione di genere e una violazione dei diritti umani delle donne. È partendo da questo presupposto che il Centro di ateneo per i Diritti Umani “Antonio Papisca” dell’Università di Padova ha deciso di dedicare un focus sulla violenza di genere, valutando il Piano d’azione straordinario contro la violenza di genere 2015-2017“.
«Un piano che può definirsi più una dichiarazione d’intenti che un piano – afferma la dottoressa Claudia Pividori, che ha curato il focus – con una struttura estremamente deficitaria».
Il piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere in Italia: dati e carenze
L’analisi condotta dall’Università di Padova si concentra sul piano 2015-2017, previsto dalla legge 119/2013 e adottato con Decreto del presidente del consiglio dei ministri il 7 luglio 2015 (nel frattempo sostituito dal Piano 2017-2020). Analisi che parte da dati sul carattere non episodico della violenza maschile sulle donne. Basti pensare che – come rileva l’indagine sulla sicurezza delle donne 2014 dell’Istat – il 31,5% delle 16-70enni (6 milioni e 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale.
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La prospettiva di analisi è duplice: da una parte la conformità del Piano nazionale d’azione italiano rispetto agli standard internazionali – in primo luogo quelli stabiliti dalla Convenzione di Istanbul – dall’altra l’analisi di quanto previsto dal Piano sia stato effettivamente realizzato.
«La nostra è un’analisi molto critica – afferma la dottoressa Pividori – Il piano si presenta estremamente deficitario. Non sono previste azioni, obiettivi e indicatori. Si può definire più un documento di intenti che programmatico, mancando un punto di partenza e uno di arrivo».
Un punto deficitario è la governance, ovvero quali strutture a livello nazionale e territoriale si sono fatte carico dell’attuazione del Piano. «A livello nazionale – spiega la Pividori – c’è il dipartimento delle Pari opportunità incaricato presso la presidenza del Consiglio dei Ministri. C’è da rilevare tuttavia che non si tratta di un ministero, ha dunque una rilevanza politica minore. Inoltre ha vissuto diversi avvicendamenti rispetto a chi lo reggeva. Si tratta di una struttura molto debole».
Senza contare che i due organismi che dovevano guidare l’attuazione del piano, la cabina di regia inter-istituzionale (composta da rappresentanti delle amministrazioni statali, delle regioni e degli enti locali) e l’Osservatorio nazionale sul fenomeno della violenza, sono stati istituti un anno dopo l’adozione del piano, nel 2016, quindi per un anno il piano è rimasto fermo.
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Violenza di genere nella definizione del Pan
L’analisi condotta dall’Università di Padova si concentra sulle tre assi del Pan italiano: prevenzione, protezione, punizione. Rispetto agli obiettivi della prevenzione, il Piano fa riferimento alla necessità di promuovere un cambiamento degli atteggiamenti, dei ruoli di genere e degli stereotipi che rendono accettabile la violenza maschile nei confronti delle donne. E non mancano le carenze: nell’area educazione, ad esempio, non è menzionata l’educazione non formale, né ambiti significativi quali la famiglia, i luoghi di lavoro, le associazioni sportive o religiose. Non vi sono inoltre azioni o linee di intervento dedicate a particolari categorie di soggetti (uomini e ragazzi, genitori, minori o adolescenti a rischio) o dirette ad intervenire sui fattori di rischio associati alla violenza.
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Rispetto alla definizione di politiche volte alla protezione e alla presa in carico delle donne vittime di violenza, il Pan identifica quali assi di intervento: la valutazione del rischio, il soccorso e il re-inserimento socio-lavorativo. Ma non tratta di accoglienza in emergenza, di accesso a servizi di supporto specializzati, del numero verde anti-violenza, dei servizi di supporto legale, della tutela dei minori coinvolti in situazioni di violenza. Il Pan, inoltre, pur menzionandoli, non considera le case rifugio e i centri anti-violenza come elementi fondamentali per il sostegno specialistico alle donne coinvolte in situazioni di violenza.
«I centri anti-violenza – spiega la dottoressa Pividori, che lavora anche in un centro anti-violenza – vengono paragonati a qualsiasi altro servizio, mentre costituiscono l’ossatura portante nella protezione alle donne. Nella parte dedicata agli obiettivi i centri anti-violenza sono infatti segnalati per la loro rilevanza sociale e per i saperi di cui sono portatori, nelle restanti parti del Pan perdono centralità, essendo considerati sostanzialmente al pari di altri soggetti del privato sociale».
Per quanto riguarda, infine, il capitolo relativo alla punizione, l’unica azione individuata dal Piano è quella relativa al recupero degli uomini maltrattanti. Ma nessun riferimento è fatto ad azioni dirette alla tutela delle vittime di violenza nell’ambito di indagini/procedimenti penali, ovvero al tema della cosiddetta vittimizzazione secondaria, delle misure di protezione, della necessità di coordinamento tra azione civile e penale.
Progetti contro la violenza sulle donne: opacità nello stanziamento di risorse
Il Pan parla di un totale di 30 milioni di euro stanziati per le annualità 2013-2015, a cui si devono aggiungere altri 10 milioni stanziati per il 2016 e 10 milioni di euro stanziati nell’Avviso pubblico per il finanziamento di progetti volti alla prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne, pubblicato il 24 luglio 2017.
«Non vi sono indicazioni chiare – si legge nel report dell’Università di Padova – circa la destinazione delle risorse rispetto a ciascuna delle linee di azione, prevenzione, protezione, punizione».
Dello stesso avviso è anche la Corte dei Conti, che nella deliberazione del 5 settembre 2016, n. 9, su “La gestione delle risorse finanziarie per l’assistenza e il sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli” afferma esplicitamente: «Per quanto concerne il Piano, va aggiunto che non sono esplicitati i criteri della ripartizione delle risorse assegnate dal legislatore, né sono stati formulati indicatori da utilizzare nella valutazione delle attività che saranno svolte e dei servizi che saranno erogati».
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«Con il nuovo piano 2017-2020 – tiene tuttavia a precisare la dottoressa Pividori – si è fatto un passo in avanti. La struttura del piano è più conforme alle raccomandazioni internazionali, si è specificato meglio le attività e gli indicatori. Il dipartimento pari opportunità, inoltre ha firmato una convenzione con il Cnr, incaricato di monitorare l’attuazione del piano. Queste sono le basi per sapere, tra due anni, se e quali saranno gli effetti del Piano. Mentre con il Piano precedente non abbiamo potuto saperlo. Una criticità che colpisce peraltro la maggior parte delle politiche pubbliche in Italia».
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Violenza di genere: l’analisi di Eurobarometro e Istat
Oltre 6 milioni di donne vittime di violenza. È l’Istat ad inquadrare il fenomeno della violenza maschile contro le donne, in un’indagine che rivela che il 26,4% delle donne ha subito violenza psicologica o economica dal partner attuale e il 46,1% da parte di un ex partner. Sono vittime di stalking il 16,1% delle donne. Anche per quanto riguarda le forme di violenza più gravi, gli autori sono prevalentemente i partner attuali o gli ex partner.
«La violenza maschile contro le donne – si legge nel focus redatto dall’Università di Padova – è dunque un fenomeno strutturale, non emergenziale, strettamente collegato alla dimensione della disuguaglianza e perciò alla differenza in termini di potere tra uomini e donne».
E in questo quadro un tassello importante è rappresentato dalle rilevazioni del contesto sociale e culturale in cui il fenomeno della violenza contro le donne si sviluppa, come quelle riguardanti i ruoli e gli stereotipi di genere. Il focus, ad esempio, cita l’indagine dell’Istat “Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere” del 2011, secondo il quale, mentre appaiono superati in Italia alcuni stereotipi sui tradizionali ruoli di genere, ne permangono altri, come quello sulla distribuzione dei compiti domestici.
E ancora: secondo quanto riporta l’Eurobarometro del 2016 sulla violenza di genere, gli italiani da un lato pensano in larga maggioranza (il 90%) che la violenza nei confronti delle donne in Italia sia un fenomeno comune, ma dall’altro dichiarano di non essere a conoscenza di donne vittime di violenza nella propria cerchia familiare o amicale. A colpire quel dato, pari all’11%, secondo il quale si pensa che la violenza domestica sia una questione privata e quindi da risolvere all’interno della famiglia, e quel 18% che pensa che sia sbagliato, ma non contro la legge, costringere il partner a un rapporto sessuale.
Passando a una disamina più generale, il report prende in considerazione l’indice elaborato dall’Eige (istituto europeo per l’uguaglianza di genere), il quale rileva che l’Italia, con un indice pari a 62,1 (somma dei vari ambiti di cui si compone l’indice, quali il lavoro, il denaro, la conoscenza, il tempo, il potere e la salute), resta al di sotto della media Ue, pari al 66,2.
Entrando nel dettaglio dei vari ambiti, un miglioramento si rileva alla voce “potere”, nonostante continui a essere il dominio con il punteggio più basso, pari al 45,3. Innegabilmente le donne hanno compiuto progressi nelle posizioni decisionali nell’ambito politico ed economico, ma restano ancora fortemente sotto-rappresentate. Ce ne si rende conto analizzando il dato relativo al “tempo” (l’indice è a 59,3), espressione di una ancora iniqua distribuzione tra donne e uomini del tempo dedicato alle attività domestiche, assistenziali e ricreative. E poi c’è l’ambito del “lavoro”, caratterizzato da disuguaglianze di genere importanti, con il tasso occupazionale femminile più basso tra i paesi Ue.
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