Perdere il lavoro, smarrire il senso: il libro di Pietro Piro

Chi è senza un impiego perde, tra le altre cose, anche il diritto a partecipare attivamente alla vita sociale ed economica. Partendo da esperienze educative sul campo, il saggio "Perdere il lavoro, smarrire il senso" analizza a fondo la qualità della vita di chi è affetto dalla "peste del non lavoro"

Forse non capita spesso di chiederselo, ma cosa succederebbe se all’improvviso perdessimo il lavoro? E cosa succede, in effetti, a chi l’ha già perso? Come si coniuga il fatto che l’Italia – Costituzione alla mano – è una Repubblica fondata sul lavoro, con chi, non avendolo, non si sente quasi in diritto di partecipare alla vita sociale? E che cos’è la cosiddetta “peste del non lavoro“?

Perdere il lavoro, smarrire il senso: l’esperienza diretta

Tutti dubbi che si pone Pietro Piro nel saggio “Perdere il lavoro, smarrire il senso“, edito da Mimesis Edizoni. Un volume di poco meno di 200 pagine, scritto dal sociologo di Termini Imerese, ormai di stanza a Bologna, che attraverso le esperienze educative fatte all’interno di alcuni luoghi istituzionali, cerca di andare a fondo di un problema che spesso è più affrontato dal punto di vista numerico – disoccupazione che sale, disoccupazione che scende – che della qualità della vita di chi un impiego non lo ha più.

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Le sue sono osservazioni si basano su un’esperienza diretta di supporto educativo, durata 9 mesi, all’interno del servizio sociale adulti del Comune di San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna. Portata avanti con persone di estrazione diversa, ma accomunate tutte da una sofferenza che è difficile lenire.

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I protagonisti sono disoccupati e inoccupati, ma anche impiegati con un lavoro frammentario, persone che non sono mai riuscite a specializzarsi né ad avere un contratto “serio”, licenziati con giusta causa o no.

E ancora: chi aspetta retribuzioni arretrate che forse non arriveranno mai, gente con un basso grado di istruzione, competenza scarsa dal punto di vista linguistico, analfabeti informatici, che hanno vissuto esperienze traumatiche, con legami familiari deboli o persino assenti, con una rete relazionale inesistente o ridotta al minimo e con la tendenza a sviluppare forme di dipendenza.

Il lavoro: il più sociale dei bisogni

In base ai colloqui fatti, è emersa innanzitutto la necessità di interrogarsi su quello che «è il più sociale dei bisogni», il lavoro, per l’appunto. Perché, scrive Piro:

«La perdita del lavoro – o l’impossibilità di avviarne uno – è il fattore di maggiore destabilizzazione emotiva e di lacerazione dell’IO».

Le caratteristiche comuni a chi perde il lavoro

Mancanza di entrate economiche

Tra le caratteristiche ricorrenti e comuni di chi è senza lavoro per i più diversi motivi, c’è naturalmente la mancanza di entrate, che incide sul pagamento di affitto, mutuo, utenze e aumenta il senso di precarietà. Come si fa a esercitare il proprio diritto di cittadino se si è soggetti a uno sfratto o affidati a strutture di accoglienza?

Impossibilità di curarsi

Non avere reddito, poi, incide sulle cure, spesso interrotte bruscamente anche quando sono essenziali. Questo fa sì che aumenti il malessere fisico e mentale. E i continui tagli alla sanità pubblica non fanno che peggiorare la situazione: da una parte contribuiscono a far crescere la diseguaglianza e, dall’altro, sul lungo termine provocano paradossalmente maggiori spese proprio al sistema sanitario nazionale, costretto a prendersi cura di chi non ha potuto curarsi al momento opportuno.

Pochi legami familiari

Altre caratteristiche comuni sono i legami familiari che si diradano e che, in situazioni del genere, lacerano i tessuti relazionali anziché unirli. Una caratteristica, quest’ultima, che si registra anche nei rapporti extrafamiliari. E poi c’è l’aumento delle forme di dipendenza e i traumi del passato, che spesso riaffiorano proprio in contesti del genere.

Tutti aspetti da considerare anche se, ricorda Piro, a un livello più superficiale:

«La domanda di lavoro è innanzitutto domanda di un reddito, di un’entrata, di un salario, di una somma di denaro disponibile da spendere per poter sopravvivere».

Cosa che emerge quasi sempre durante questi incontri dal vivo con i disoccupati. «Quanto sarò pagato?», infatti, diventa più importante del «Cosa apprenderò con questo lavoro?».

Il lavoro è appartenenza

Il lavoro, però, è anche appartenza a un contesto, alla società, al luogo in cui si vive. Non averlo può voler dire sentirsi esclusi da tutto questo. A un sentimento così profondo se ne aggiungono altri che condizionano fortemente la vita di chi è senza lavoro.

Si nota spesso una sorta di senso di colpa permanente e un sentimento di risentimento verso chi ce l’ha fatta. Sentimento che è ancora più forte in chi, fino a poco tempo prima, aveva una carriera, magari stroncata all’improvviso. Piro non lo dice apertamente, ma leggendo il testo si intuisce che tanto di quel rancore e e di quella rabbia che ci sono nella società hanno a che fare anche con il non avere più un ruolo lavorativo. E tale situazione porta a egoismo e solitudine. Il sentirsi sulla stessa barca non dà conforto, anzi:

«Se gli altri non lavorano a me non importa, perché quello che mi importa è portare i soldi a casa e fare la mia vita».

Perdere il lavoro: cosa possono fare le istituzioni

L’esperienza fatta a San Lazzaro di Savena ha dato spazio all’ascolto e all’accoglienza per supportare e indirizzare i percorsi intrapresi da queste persone. Proprio in virtù del fatto che non lavorare uccide e che «questa perdita di identità e il rispetto per se stessi può sfociare spesso in gesti estremi».

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Il testo non comunica solo esperienze così profonde, ma cerca di suggerire anche cosa potrebbe fare la pubblica amministrazione. Piro lo sottolinea: è importante offrire percorsi alternativi e complessi che tocchino tutti questi punti di fragilità. Il sostegno per l’inclusione attiva degli adulti (Sia) si basa infatti su un progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa sostenuta da una rete integrata di interventi.

Il ruolo dei Comuni per aiutare chi perde il lavoro

I singoli Comuni, oltre ad avvalersi delle misure regionali e nazionali, potrebbero prevedere altri accessi: a laboratori di mestieri artigianali, a corsi d’informatica, lingue, ma anche economia, diritto e sicurezza sul lavoro, servizi di supporto psicologico, gruppi di auto-mutuo aiuto, strutture sportive e ricreative, strutture di accoglienza e di supporto religioso-spirituale.

Percorsi che, come precisa il sociologo, devono essere sempre monitorati e condivisi con un educatore.

«Non si possono demandare alla buona volontà della persona perché abbiamo sperimentato come la persona in difficoltà, spesso, non sia in grado di attivare da sola queste dinamiche positive».

Dinamiche che consentono al disoccupato di non perdere la voglia di progettare, di sforzarsi quotidianamente, di allenarsi alla fatica e alla socializzazione, anziché vegetare sul divano o mandare curricula a tutta forza senza parlare con nessuno durante la giornata.L’aspetto relazione del lavoro è, lo si dice più volte nel libro, ampiamente trascurato quando si parla di disoccupazione.

Lavorare gratis, lavorare tutti: la proposta di De Masi

Un capitolo del saggio di Piro è dedicato alla proposta del sociologo Domenico De Masi, a sua volta affrontata nel libro “Lavorare gratis, lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati”.

Piro lo dice all’inizio del capitolo: quello di De Masi è un tema da tenere in considerazione. De Masi infatti pensa che «i disoccupati invece di starsene a casa, dovrebbero regalare la loro professionalità a chi ha bisogno». In base alle proprie competenze, chi è senza lavoro, dice De Masi,

«può dare un contributo alla società, con un duplice obiettivo: andare incontro a determinate esigenze e soprattutto evitare di cadere in depressione e continuare a vivere isolati».

Non parla di lavoro gratis tour court, ma di una strategia in 11 fasi che può puntare a creare una società non più monopolizzata dal lavoro, «ma dalla vita nella sua interezza».

Per fare questo, tra le varie cose, bisognerebbe pianificare l’introduzione di un salario minimo e di un reddito di cittadinanza. Che, in un certo senso, «sarebbero ricambiati» dal disoccupato lavorando attivamente per la società.

Una posizione non facilmente comprensibile, ma Piro non la cataloga come «mera provocazione», bensì come un punto di partenza, un contributo alla riflessione, che deve essere sempre più ampia e non legata solo ai numeri.

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