Libano: condizioni disumane per le lavoratrici domestiche immigrate

Le donne immigrate in Libano per trovare un impiego come collaboratrici domestiche vivono in condizioni disumane. Oltre 250 mila non libanesi vengono sfruttate ogni giorno per 17-18 ore, pagate quattro soldi e non vedono riconosciuto alcun diritto. Una macchina che funziona grazie a un antico sistema che le lega agli aguzzini

Francesca Calcavecchia, da Beirut, Libano

Quando si parla di Libano e migranti il pensiero corre ai rifugiati della guerra in Siria, visto che un territorio grande come l’Abruzzo ne accoglie oltre un milione. Ma andando oltre la superficie si scopre che in questa stessa zona c’è un’altra realtà che merita grande attenzione. È quella delle lavoratrici domestiche non libanesi, un piccolo esercito di oltre 250 mila donne arrivate da Africa e Asia che troppo spesso deve affrontare violazioni dei diritti umani di vario tipo. Le domestic workers provengono perlopiù da Sri Lanka, Etiopia, Filippine e Nepal.

All’origine del fenomeno delle donne sfruttate in Libano

Quasi tutte le famiglie in Libano hanno una domestica ed è comune vedere giovani ragazze dai tratti africani portare in giro i figli di genitori libanesi. Un fenomeno che trova le sue radici in un sistema istituzionalizzato e radicato in tutto il Medio Oriente: la Kafala, una forma di schiavitù moderna.

Tradotto letteralmente come “fideiussione” o “sponsorship”, la Kafala è un sistema che lega inesorabilmente lo status giuridico degli immigrati a privati cittadini o società che ne sono sponsor.  Così sono arrivate negli anni centinaia di migliaia di giovani domestiche, in cui sono spesso gli stessi datori di lavoro, tramite agenzie, a prendersi carico del visto anticipandone le spese. Le ragazze vengono dunque reclutate nei loro Paesi di origine, per poi essere messe su un aereo diretto in Libano e portate direttamente nelle case delle famiglie per cui lavoreranno.

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Qui riceveranno un permesso di lavoro della durata del contratto, dopodiché, una volta conclusi i termini di lavoro, perdendo il diritto a rimanere in Libano, sarà sempre lo sponsor a pagare il volo di ritorno e assicurarsi che la lavoratrice torni nel suo Paese. Questo sistema impedisce loro di poter lasciare liberamente il lavoro qualora, come spesso succede, subiscano delle violenze. Se dovessero farlo, infatti, perderebbero il visto e verrebbero rimpatriate.

Condizione delle donne immigrate in Libano: 17 ore di lavoro al giorno per quattro soldi

Secondo l’ultimo studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) su questa specifica materia, condotto su 600 lavoratrici domestiche immigrate, una lavoratrice domestica immigrata lavora tra le 16 e le 17 ore al giorno, guadagna in media 200 dollari al mese, parte dei quali sono mandati alle famiglie nel Paese d’origine. E in molti casi non è corrisposto un salario effettivo.

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La storia di Mali, una delle donne intervistate nella ricerca Ilo, è un esempio in questo senso. La donna, immigrata in Libano dallo Sri Lanka, ha lavorato a Beirut per 14 mesi ricevendo in tutto 300 dollari. Successivamente, è stata mandata in Siria dall’agenzia per cui lavorava, ricevendo un salario di 200 dollari per 7 mesi di lavoro. In quasi due anni, come lavoratrice domestica Mali è riuscita a mandare 300 dollari alla madre, mentre 200 li ha tenuti per sé.

Libano: i diritti violati delle domestiche immigrate

Tra i diritti violati delle lavoratrici domestiche immigrate in Libano c’è innanzitutto l’assenza di protezioni basilari del diritto del lavoro. L’articolo 7 del Codice del lavoro libanese, infatti, recita che ad essere escluse dalla legge sono le lavoratrici domestiche assunte in case private. Vengono meno quindi diritto al salario minimo statale (333 dollari al mese), giorni liberi e ferie.

Oltre a questo, è negato il diritto alle libertà di associazione, sancito nell’articolo 2 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, ratificato dal Libano nel 1972.

Ad aggiungersi all’elenco dei diritti violati ci sono poi i numerosi casi di abusi verbali e fisici, nonché la reclusione fisica nel luogo di lavoro. È pratica comune, infatti, che il datore di lavoro confischi passaporto e documenti e non faccia uscire la domestica da casa al fine di salvaguardare il proprio investimento finanziario.

A testimoniare questi fatti, si legge nello studio dell’Ilo, ci sono le storie di molte donne. Tra le quali quella di Pia, chiusa in casa a chiave ogni volta che la famiglia usciva; o quella di Melika, picchiata da un uomo che lavora nell’agenzia con cui è arrivata in Libano.

A chiudere il quadro si aggiungono svariati episodi in cui le lavoratrici sono state espulse per aver avuto figli in territorio libanese, un provvedimento che viola il diritto alla vita familiare.

In un contesto del genere, ad oggi si conta una media di due decessi a settimana tra le lavoratrici domestiche immigrate, principalmente suicidi, imputabili alle condizioni di sfruttamento lavorativo.

Nessuna giustizia per le donne immigrate in Libano

Come sottolineato in un datato, ma ancora attuale, report di  Human Rights Watch sull’accesso alla giustizia delle domestic workers in Libano, ci sono una serie di fattori per cui le lavoratrici immigrate decidono di non intraprendere azioni legali contro i propri datori di lavoro. Assenza di supporto legale, paura di ritorsioni, rischio di essere detenute e, soprattutto, politiche restrittive in fatto di visto rendono difficile avviare un processo dai tempi imprevedibili.

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Tiro, Libano

A causa del sistema che vincola lo status legale ai datori di lavoro, infatti, una domestica immigrata perde il diritto a stare in Libano se lo sponsor decide di terminare il contratto.  E accade così che, se la donna dovesse iniziare una causa contro il proprio sponsor, perderebbe il posto di lavoro e, di conseguenza, correrebbe il rischio di essere detenuta o rimpatriata prima che il suo caso venga discusso.

Nei casi portati davanti alla corte, inoltre, le soluzioni presentate raramente hanno riconosciuto le violazioni più gravi subite dalle lavoratrici domestiche. È il caso, per esempio, di una donna keniota che ha riferito alla polizia gravi violazioni, tra le quali essere stata rinchiusa in casa dal datore di lavoro, fatto confermato dallo stesso diretto interessato. Nonostante questo, però, il giudice ha chiuso il caso ordinando alla polizia solo di ottenere le garanzie affinché il datore si impegnasse a fornire i documenti e il salario alla donna, senza giudicare l’offesa come privazione della libertà personale (articolo 569 del Codice penale libanese).

Condizioni inumane nei centri per stranieri

Un discorso a parte richiede la questione delle condizioni dei centri di detenzione per stranieri, in cui non solo le lavoratrici domestiche immigrate, ma anche rifugiati siriani e palestinesi sono detenuti per periodo di tempo variabili.

Fino a due anni fa, il centro di detenzione della città di Beirut si trovava ad Adlieh, in un parcheggio sotterraneo dove i detenuti erano ammassati in celle prive di ricambio d’aria e luce. In seguito alle numerose pressioni e denunce per condizioni disumane, a fine agosto 2016 un nuovo centro è stato aperto ad Al Abed Square, ma le informazioni al riguardo sono ancora scarse.

Le osservazioni conclusive del Comitato Onu contro la tortura di maggio 2017 dicono che, pur mostrando un passo avanti con la chiusura del centro di Adlieh, il Libano dovrebbe astenersi dal detenere rifugiati, migranti irregolari e richiedenti asilo per periodi prolungati, usando la detenzione solo come ultima risorsa e per periodi più brevi possibili. Il numero di donne vittime di tortura e maltrattamento per mano delle stesse forze dell’ordine, inoltre, è ancora alto, come dimostrato da una ricerca del Lebanese Centre for Human Rights.

In questo contesto, dunque, cresce il numero di donne che si rivolge al mercato nero per ottenere dei documenti, mettendosi nelle mani degli stessi trafficanti che promettono l’Europa ai siriani che vogliono lasciare il Paese.

A prestare supporto alle lavoratrici domestiche immigrate è un network di ong, realtà della società civile e organizzazioni internazionali. Tra questi, l’Organizzazione internazionale del lavoro-Ufficio Regionale per gli Stati Arabi e la Caritas Libanese, operativa da oltre 25 anni con il Caritas Lebanon Migrant Centre.

Nell’attesa che il Governo libanese ratifichi la Convenzione Ilo sul Lavoro dignitoso per lavoratrici e lavoratori domestici, accolta positivamente nel 2011 ma mai ratificata, il Libano resta dunque una trappola per tante giovani donne immigrate.

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