Eni Nigeria, Zingales punta l’indice contro procedure anti-corruzione

Zingales, entrato nel consiglio d'amministrazione di Eni nel 2014, ne è uscito l'anno dopo per «divergenze inconciliabili». Al processo "Scaroni+altri" sulla presunta tangente legata all'affaire Nigeria, Zingales parla del suo interessamento al caso Opl 245 e delle critiche ricevute a suo tempo dall'attuale ad, Claudio Descalzi

Seconda corte d’assise, tribunale di Milano. L’aula è piena per la prima volta dall’inizio del processo “Scaroni+altri”. La corte presieduta dal giudice Marco Tremolada deve decidere su un caso di presunta corruzione internazionale. Eni, insieme a Shell, avrebbe pagato 1,092 miliardi di dollari a intermediari del governo nigeriano per aggiudicarsi la licenza esplorativa ed estrattiva in Nigeria denominata Opl 245. Tra gli imputati ci sono l’attuale amministratore delegato Claudio Descalzi, all’epoca direttore generale della divisione Exploration e Production, e il predecessore Paolo Scaroni, all’epoca numero uno della società

Zingales parla al processo sulla presunta tangente

Il teste dell’udienza è Luigi Zingales, economista dell’università di Chicago, che dal 9 maggio 2014 al 3 luglio 2015 è stato membro del consiglio d’amministrazione di Eni. Ha lasciato il consiglio dopo 14 mesi per «non conciliabili divergenze» con il resto del cda. A nominarlo il ministero del Tesoro, che, racconta il teste, aveva diffuso la notizia alla stampa ancora prima che l’economista accettasse.

Con gli altri consiglieri e la dirigenza il rapporto di Zingales non è stato semplicissimo nell’anno trascorso nella società che ha come azionista di maggioranza lo Stato (attualmente il 25,76% è in mano a Cassa depositi e prestiti, il 4,34% al ministero dell’Economia e delle finanze, come si vede nell’infografica qui sotto che unisce queste due voci con “Azionista pubblico”).

Zingales sostiene di aver preso sul serio quell’incarico. Racconta: «L’unica cosa che Descalzi mi trasmise fu che questo mio interesse, questo mio continuo fare domande su questa vicenda (acquisto della concessione per il giacimento Opl-245 in Nigeria, ndr) e poi sul Congo, paralizzava la società».

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Così nel 2015 l’azienda decise di fare una “peer-to-peer review”, una procedura di valutazione interna al consiglio d’amministrazione. «Da questa review fra consiglieri – ricorda ancora Zingales – venne fuori che il problema ero io. Venni definito un “poliziotto”, uno più attento alla compliance che alla strategia. Capii che nel consiglio non potevo più avere alcuna funzione positiva e quindi mi dimisi».

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Paolo Scaroni – Foto: Alexey Druzhinin / Government.ru (via Wikipedia)

La mancata due diligence di Eni per la licenza Opl 245

Fin dal luglio 2014, Zingales afferma di essersi interessato anche alla trattativa per la licenza Opl 245. Era preoccupato dei possibili danni reputazionali ed economici che avrebbe potuto subire la società in caso di un procedimento penale. «All’interno di Eni si diceva continuamente che l’azienda non usava intermediari nelle trattative», racconta Zingales. Però per il giacimento nigeriano l’intermediario c’era: Emeka Obi, legale rappresentante della società Energy Venture Partners Ltd (Evp, sede alle Isole Vergini Britanniche) con la quale Eni già nel 2010 aveva siglato un accordo di esclusiva per la trattativa in Nigeria senza fare una due diligence, cioè un approfondimento di dati e informazioni, su di lui, apprende Zingales.

«Un buco significativo di governance», secondo l’economista. Nella sua comunicazione pubblica e interna, infatti, Eni ha sempre detto di negoziare sempre e solo con gli Stati nazionali. Per di più Obi non aveva nemmeno fornito documentazione in grado di dimostrare che in effetti operasse per conto della Malabu Oil & Gas, circostanza poi garantita dall’ufficio legale/affari internazionali, che invece aveva preso visione del mandato di Obi (su cui però Zingales non ha saputo fornire dettagli, come richiesto nel contro-esame della difesa).

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Le risposte dell’ufficio legale di Eni

Zingales aveva già chiesto conto all’ufficio legale di Eni della questione Obi, ottenendo come risposta dei documenti interni – sui quali Zingales è stato un po’ vago – che indicavano le modalità dei negoziati e della transazione fatta da Eni nel 2011. Per l’ufficio legale, Obi non era un intermediario di Eni, ma di Malabu, la società dietro la quale si nasconderebbe l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, che prima di lasciare il ruolo nel 1998 si sarebbe autoassegnato la licenza a un prezzo – ritengono Zingales e la procura – irrisorio.

Etete, dice Zingales, è stato condannato in Francia per corruzione internazionale e quindi era già un soggetto che richiedeva particolari attenzioni. Invece, racconta ancora Zingales, l’allora amministratore delegato Paolo Scaroni, ascoltato dalla Commissione industria presieduta nel 2015 dal senatore Muchetti,

«disse che dai controlli effettuati non erano emersi collegamenti tra Malabu e Dan Etete, una dichiarazione che mi sembra perlomeno ardita, che non dà una corretta rappresentazione della realtà, visto che in Eni avevamo il report della società indipendente Risk Advisory Report che sosteneva come fonti petrolifere nigeriane e servizi giornalistici indicassero come dietro Malabu c’era Etete, che era peraltro ministro del Petrolio quando l’Opl 245 venne assegnato alla società Malabu».

 

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L’affaire Eni Nigeria tra rischi economici e d’immagine

L’economista in Eni si è  preoccupato della presenza di un intermediario e della sua mancata due diligence anche perché la società nel 2014-2015 era già sorvegliata speciale in tema di corruzione, specialmente in Nigeria.

Nel 2010 la compagnia era già stata coinvolta in uno scandalo mondiale riguardante le concessione di Bonny Island, uno dei giacimenti più ricchi della Nigeria. Qualunque comportamento sospetto avrebbe potuto trasformarsi in una sanzione da parte della Sec, l’autorità di vigilanza delle società quotate negli Stati Uniti (come Eni), molto onerosa sul piano economico per l’azienda. Zingales avrebbe quindi voluto evitare di trovarsi anche solo nella situazione di insospettire ulteriormente l’istituzione americana.

Altra stranezza: l’obiettivo economico di Eni era aggiudicarsi Opl 245, che all’epoca apparteneva alla società Malabu Oil&Gas dell’ex ministro del petrolio Dan Etete. Dentro Malabu, Eni poteva contare su Ernest Olufemi Akinmade, ex dipendente di Agip Nigeria (controllata Eni) con cui Zingales ritiene l’azienda abbia avuto ancora rapporti. Eni ha anche pagato un pernottamento in un albergo di Parigi all’ex dipendente che ora lavora per la controparte, racconta l’economista.

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Zingales ricorda i sospetti di Litvack, consigliera Eni

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Claudio Descalzi – Foto Eni (via Flickr)

Nella testimonianza in tribunale, Zingales sostiene più volte di non essere stato l’unico nel consiglio di Eni ad avere sospetti sul caso Nigeria. Insieme a lui, la più insospettita è Karina Litvack, tutt’oggi nel cda. Zingales spiega che dopo una cena con Descalzi, Litvack gli aveva riferito l’impressione che l’amministratore delegato di Eni fosse pentito. Alla domanda del pm di specificare se si trattasse di decisioni prese su Opl 245, il teste ha confermato.

Litvack, nominata nello stesso anno di Zingales, era stata allontanata dall’azienda nel 2016 a seguito di un procedimento per «complotto» in cui era finito dentro anche Zingales (con l’accusa di diffamazione), poi archiviato nel 2017.

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