Diritti umani in Italia: violazione e tutela all’esame del Sant’Anna
Nell'anno della presidenza Osce del nostro Paese, un report della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, redatto grazie anche al contributo di Osservatorio Diritti, analizza i diritti umani in Italia. Il documento affronta il tema della tutela e della violazione dei diritti umani concentrandosi su cinque aspetti: migrazione, donne, violenza di genere, tratta di esseri umani, razzismo
Migrazione, ruolo delle donne, impegno contro la violenza di genere, tratta di esseri umani, contrasto al razzismo, xenofobia e antisemitismo. Sono queste le cinque macro-aree su cui si è giocato l’esame a cui l’Italia si è sottoposta in vista del 2018, l’anno in cui ha assunto la presidenza dell’Osce, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.
A fare luce sull’impegno in materia di diritti umani del nostro Paese, ma anche ad individuarne le ombre, è stata la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, che ha redatto il rapporto indipendente Implementation of Selected OSCE Commitments on Human Rights and Democracy in Italy sotto la guida dal professore di diritto pubblico internazionale e direttore dell’Istituto Dirpolis del Sant’Anna, Andrea de Guttry.
Grazie a un sistema partecipato – che ha coinvolto diversi attori istituzionali, della società civile, del mondo universitario e della ricerca, tra i quali anche Osservatorio Diritti – il documento è la disamina dettagliata dell’impegno italiano rispetto ad alcuni principi Osce sul tema dei diritti umani.
Diritti umani in italia: il tema della migrazione
Il primo capitolo del report è una sorta foto statica, scattata prima del 2018, del macro tema della migrazione in Italia. Nel rapporto si parla di oltre 5 milioni di stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, l’8,2% della popolazione, per lo più provenienti da Romania, Albania, Marocco, Cina e Ucraina. E si parla di una stima di 670 mila stranieri irregolari.
Secondo i dati riportati nello studio, i migranti arrivati in Italia nel 2015 sono stati 153 mila, aumentati a oltre 181 mila nel 2016, ma diminuiti a poco più di 119 mila nel 2017. Partendo da questo quadro numerico, il report passa in rassegna alcuni punti critici della macro-area relativa alla migrazione.
Migranti e lavoro alla prova dei diritti umani in Italia
Riguardo al soggiorno in Italia, questo segue, dal 1986 – riporta il report – la regola per cui è necessario essere sponsorizzati da un datore di lavoro residente in Italia. La possibilità di entrare in Italia per trovare lavoro, infatti, è esclusa, in quanto la legge non prevede la possibilità di convertire un permesso di soggiorno per ragioni di turismo in uno per motivi di lavoro. Di conseguenza, chiunque resti in Italia dopo la scadenza individuata nel visto sarà considerato irregolarmente residente. Di fronte a questo quadro giuridico, si è assistito all’aumento degli stranieri irregolari nel nostro paese, che entrano con un visto per soggiorni brevi e si trattengono, magari lavorando senza un contratto, in attesa di una regolarizzazione.
C’è poi il capitolo quote di ingresso. Secondo la legge sugli stranieri, il governo deve redigere un documento di pianificazione politica triennale che fissa le quote annuali per l’ingresso di stranieri a fini lavorativi. L’ultimo documento di pianificazione italiano risale al 2005. Una carenza che trova la sua giustificazione nella situazione economica nazionale: la riduzione generale della domanda di lavoro avrebbe reso impossibile definire flussi migratori su un periodo di tre anni.
La tutela dei diritti umani dei richiedenti asilo
Un capitolo a parte merita lo status di rifugiato. La Costituzione italiana riconosce il diritto alla protezione non solo a chi è stato perseguitato individualmente, ma anche agli stranieri che fuggono dal loro paese per salvare le loro vite, sfuggire alla guerra, disordini civili o coloro che sono impediti dall’esercizio delle libertà democratiche riconosciute dalla stessa Costituzione. Tuttavia, rileva il report:
«Una legge nazionale in materia di asilo non è mai stata attuata. Il quadro giuridico è ora cambiato grazie all’implementazione delle direttive Ue in materia di asilo che hanno costretto l’Italia a stabilire un sistema organico di asilo, adottando legislazioni sullo status di rifugiato e protezione sussidiaria, condizioni di accoglienza e procedure per la concessione internazionale di protezione».
Da qui il terreno impervio del Regolamento di Dublino. Secondo l’articolo 7 il richiedente è autorizzato a rimanere in Italia in ogni fase della procedura e il trasferimento da un paese all’altro si basa sul presupposto che tutti i paesi europei possano essere considerati sicuri per i richiedenti asilo.
«Questo – si legge nel report – è in contrasto con la realtà, poiché i sistemi di asilo sono diversi, anche tra i paesi dell’Ue. Inoltre, ogni Stato membro ha sistemi di welfare diversi e diversi mercati del lavoro e così uno Stato membro può essere molto più attraente di un altro. Il risultato è che il sistema di Dublino si è dimostrato inefficace».
Le difficoltà nell’attuazione dei trasferimenti sono esacerbate, inoltre, dai numerosi tentativi di aggirare l’identificazione all’arrivo in alcuni Stati membri. Senza un’identificazione corretta dei candidati al loro arrivo, è quasi impossibile dimostrare lo Stato di primo ingresso in cui deve essere presentata la domanda di protezione.
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Mentre questa soluzione ha permesso alle persone di raggiungere le destinazioni desiderate, ha minato in modo significativo il principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri nell’attuazione degli obblighi derivanti dall’Ue. Per questo motivo, i centri hotspot sono stati aperti in Italia e in Grecia, sotto la pressione delle istituzioni dell’Ue.
L’analisi evidenzia in linea generale, quindi, un livello soddisfacente di conformità delle legislazioni in vigore in Italia con gli impegni Osce in merito alla migrazione. Ma l’applicazione pratica delle leggi è più debole a livello locale. È per questo che nel report si indica la necessità per il governo italiano di adottare un Piano nazionale migrazione, ma anche di consentire la partecipazione degli stranieri alla vita pubblica, garantire procedure di asilo efficaci e l’accesso alla giustizia contro la negazione della protezione internazionale tra cui assistenza legale effettiva, parità di trattamento nelle procedure giudiziarie e diritto a un processo equo.
L’agenda per le donne, pace e sicurezza
Nel 2000 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità risoluzione Donne, pace e sicurezza, che ha sottolineato l’importanza delle donne come agenti nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, risposta umanitaria e nella ricostruzione postbellica e nella pace. I piani di azione nazionale italiani – si legge nel report – sono stati sviluppati in conformità con le politiche dell’Ue e della Nato, ma nonostante i miglioramenti l’Italia ha fallito in alcune parti del modello.
C’è comunque da riconoscere all’Italia gli sforzi fatti nel pilastro della partecipazione, che si riferisce al miglioramento della piena partecipazione delle donne in tutti i processi relativi alla pace e al conflitto. Dal 2000 più di 12 mila donne hanno aderito all’esercito e ai carabinieri italiani, senza restrizioni per quanto riguarda reclutamento, ruoli e responsabilità rispetto ai colleghi maschi.
Attualmente, le donne rappresentano circa 5% del personale delle forze armate. Secondo i dati raccolti a dicembre 2016, il numero di donne è pari a: 5.991 (6.30%) nelle forze armate; 1.246 (3,10%) nell’aeronautica; 2,041 (5,20%) nella Marina; 2.569 (2,47%) nei Carabinieri.
Tratta: le autorità di fronte ai diritti umani violati in Italia
Il report mette in evidenza, nel terzo capitolo, il ruolo delle autorità italiane riguardo la tratta di esseri umani. «La posizione geografica dell’Italia nel centro del Mediterraneo e la costa estesa per oltre 8 mila chilometri contribuiscono a rendere il nostro paese un punto di transito e di destinazione rilevante per migranti e richiedenti asilo che vogliono raggiungere le coste europee. L’aumento del numero di arrivi via mare di migranti irregolari e richiedenti asilo ha portato al conseguente aumento delle vittime della tratta di esseri umani nel paese».
Per esempio, l’International Organization for Migration stima approssimativamente che l’80% delle 11.009 donne nigeriane arrivate in Italia nel 2016 sono probabilmente vittime della tratta di esseri umani. Il numero delle vittime è raddoppiato rispetto all’anno precedente.
Inoltre, secondo il Centro europeo per il contrabbando di migranti dell’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’applicazione della legge, circa il 25% dei contrabbandieri che trasportano persone attraverso i confini verso i paesi europei sono collegati con la tratta di esseri umani.
Le forme più comuni di sfruttamento per le vittime della tratta di esseri umani in Italia sono lo sfruttamento sessuale e lavorativo. Come riportato dall’Europol, l’Italia è una delle destinazioni più comuni per le vittime della tratta riguardo lo sfruttamento sessuale e lavorativo in Europa. Quest’ultima forma di sfruttamento si verifica soprattutto nei settori manifatturiero, dei servizi e impianti di lavorazione della carne e in agricoltura.
Per quanto riguarda quest’ultimo settore, l’Osservatorio Placido Rizzotto afferma che ci sono 80 aree in Italia in cui forme di serio sfruttamento del lavoro agricolo sono state rilevate. Si stima che tra 400 mila e 430 mila lavoratori agricoli sono potenzialmente soggetti a varie forme di illeciti, di cui 100 mila considerati in una grave condizione di sfruttamento e vulnerabilità. Le catene di approvvigionamento nel settore agricolo in Italia sono solitamente complesse e spesso caratterizzati dall’infiltrazione di organizzazioni criminali di stampo mafioso.
Altri sviluppi legislativi rilevanti sono stati recentemente realizzati nell’area di minori migranti non accompagnati (leggi Bambini: i diritti negati di infanzia e adolescenza). I Muam sono particolarmente a rischio di diventare vittime di tratta e sfruttamento una volta in Italia. Secondo i dati del ministero dell’Interno, i minori non accompagnati costituiscono una parte rilevante dei flussi migratori verso l’Italia. Sono 25.846 i minori non accompagnati arrivati nel 2016, 15.731 nel 2017 e 1.116 tra il 1° gennaio e il 19 aprile 2018. In questo contesto si evidenzia un aumento del numero di bambini nigeriani e rumeni costretti alla prostituzione di strada, altri bambini egiziani e bengalesi vittime di sfruttamento lavorativo o coinvolti in attività delinquenziali, come lo spaccio di droga e prostituzione.
È in questa cornice difficile che, negli ultimi due decenni, l’Italia ha sviluppato e messo a punto una legislazione avanzata per combattere la tratta. In particolare, l’articolo 18 del decreto legislativo 28/98 è stato il primo atto legislativo in Europa mirato a combattere la tratta di persone e garantire la protezione delle vittime. Questa disposizione, che è internazionalmente riconosciuta come un modello nel campo protezione delle vittime, prevede la concessione di un permesso di soggiorno speciale a vittime della tratta per garantire loro la protezione sociale.
La disposizione afferma che il permesso di soggiorno può essere rilasciato alla vittima della tratta sulla base di due procedure: il percorso giudiziario, per quelle vittime che vogliono cooperare con le autorità portando accuse contro i trafficanti e sfruttatori, e il percorso sociale, in cui le vittime non vogliono riferire alle autorità, ma sono comunque in una situazione di pericolo. I programmi sono per lo più gestiti da organizzazioni non governative locali (ong) o servizi sociali. Pertanto, la legislazione italiana riconosce l’importante ruolo svolto dalle ong nella protezione delle vittime e nella promozione della loro riabilitazione e reintegrazione nella società.
Come l’Italia combatte la violenza sulle donne
E dopo il ruolo delle donne come agenti nella prevenzione e risoluzione dei conflitti, il rapporto dedica un focus anche al tema della violenza di genere. I dati disponibili e più recenti mostrano che 6 milioni 788 mila donne in Italia, corrispondenti al 31,5% delle donne italiane tra i 16 anni e 70 anni, hanno sperimentato qualche forma di violenza di genere ad un certo punto della loro vita.
Su questo capitolo, il report evidenzia come lo sforzo legislativo di trasporre gli obblighi della Convenzione di Istanbul nel quadro nazionale italiano attraverso l’adozione della legge 119/2013 sia stato elogiato dal Comitato Cedaw (la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) nelle sue osservazioni conclusive sul rapporto periodico presentato dall’Italia.
Tuttavia, c’è preoccupazione per la repressione criminale di atti di violenza contro le donne, mentre altri aspetti importanti, come la prevenzione e la protezione, non sono inseriti nel quadro giuridico esistente, ma solo nei documenti politici. Inoltre, la legge 122/2016 relativa al risarcimento di danni subiti dalle vittime di violenza di genere non è in linea con gli standard internazionali esistenti.
Prevenzione contro la violazione dei diritti umani in Italia
Entrando nel dettaglio, e concentrandosi sul tema della prevenzione, il report mette in luce come il piano strategico nazionale straordinario 2017-2020 non sia stato ancora approvato e non sia chiaro in che modo i fondi, 35,4 milioni di euro, saranno assegnati, distribuiti e quali priorità chiave saranno identificate e attuate nell’ambito di ciascun pilastro. L’approccio dell’Italia riguardo al filone della protezione è stato proattivo negli ultimi anni, dal momento che le informazioni riguardanti l’utilizzo della linea di assistenza sono debitamente monitorati e raccolti e il numero di rifugi è aumentato significativamente, anche se ancora non rispetta le indicazioni della Convenzione di Istanbul, ovvero la presenza di un luogo di famiglia ogni 10 mila abitanti. Inoltre, come sottolineato anche dal Comitato Cedaw, esistono ancora notevoli disparità regionali e locali nella disponibilità e qualità dei servizi di assistenza e protezione.I piani di azione nazionali adottati dall’Italia, nonché le linee guida che si rivolgono a tutti i professionisti che lavorano nel settore sanitario, ruotano attorno al chiaro obiettivo di rafforzare la cooperazione tra gli attori coinvolto nella lotta alla violenza contro le donne, in linea con la decisione Osce del 2014 sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne. Di fatto, è stato adottato il nuovo piano strategico nazionale, ma non ancora approvato, mentre le linee guida devono essere implementate entro un anno dalla loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, cioè entro febbraio 2019.
Italia valutata su razzismo, xenofobia e antisemitismo
L’ultimo capitolo è dedicato agli episodi legati a razzismo, xenofobia e antisemitismo. Secondo i primi dati disponibili per il 2017, riporta il report, quasi 4 mila episodi sono stati registrati dall’Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali (Unar) e il 91% di questi sono stati considerati come casi di discriminazione razziale e/o xenofobia: il 73% classificato come discriminazione etnica e/o razziale (incluso il 16% dei casi di discriminazione nei confronti di rom, sinti e caminanti); 9,9% come discriminazione basata su convinzioni religiose o personali; 9,1% come discriminazione basata sull’orientamento sessuale e/o sull’identità di genere; 4,4 % come discriminazione basata sulla disabilità; 2,4% come discriminazione basata sull’età; 1,2% come discriminazione multipla. I dati statistici mostrano un aumento di oltre il 30% delle informazioni ricevute dal Centro di contatto Unar.
In generale, il quadro legislativo e istituzionale italiano è pienamente in linea con le norme e gli impegni dell’Osce. Una grave preoccupazione, da parte del governo centrale e le autorità locali, tuttavia, rimane per la stigmatizzazione di alcuni gruppi etnici e sociali come le persone rom, sinti e caminanti, che in Italia si stima siano circa 140 mila, cioè lo 0,23% della popolazione totale.
Al centro dell’attenzione anche la propaganda su Internet. La Commissione Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo ha offerto un’analisi approfondita di questa situazione. Dal 2015, la tendenza del pensiero xenofobo tra gli italiani ha raggiunto più della metà della popolazione del paese. I forum dei giornali online, le pagine Facebook nazionali e i giornali locali stanno diventando le comunità virtuali in cui i discorsi di odio si stanno diffondendo.
A gennaio 2016, l’Unar ha lanciato l’Osservatorio contro la discriminazione sui media e su Internet per monitorare in modo completo casi di incitamento all’odio, anche online. Negli ultimi tre anni (2015-2017) ci sono stati più di 800 procedimenti giudiziari. Questo numero è ancora più drammatico se aggiungiamo episodi che non sono stati denunciati alla polizia.
Non mancano episodi di incitamento all’odio da parte di politici. L’avvio di procedimenti giudiziari contro i responsabili non ha impedito l’uso di un linguaggio offensivo nel dibattito politico su radio e televisione contro gruppi vulnerabili. Internet e i social media stanno diventando l’arena utilizzata da rappresentanti politici per diffondere messaggi razzisti. Negli ultimi anni, rapporti indipendenti mostrano l’aumento delle espressioni antisemite (anche nel web): da 53 episodi nel 2010, a 90 nel 2015, e 130 nel 2017. Si fa riferimento a reati verbali, insulti, minacce, vandalismo, diffamazione, graffiti.