Uiguri: la repressione della Cina contro i musulmani dello Xinjiang
Human Rights Watch pubblica oggi un report sulla repressione della Cina contro gli uiguri dello Xinjiang. Si parla di detenzioni arbitrarie di massa, torture, maltrattamenti, controlli pervasivi su tutto il territorio. Un'operazione imponente di de-islamizzazione per cancellare storia, cultura, lingua uigura e origini di un intero popolo
«Le guardie ci hanno detto che noi uiguri, insieme ai kazaki, siamo i nemici della Cina, che ci vogliono uccidere, che ci vogliono far soffrire e che non ci possiamo fare niente». A parlare è Nur (pseudonimo), ex prigioniero prima in un centro di detenzione poi in un “campo di rieducazione”. Strutture, queste ultime, che le autorità cinesi hanno costruito nella regione occidentale dello Xinjiang per sradicare la cultura e l’identità della minoranza turcofona musulmana che la abita e che da sempre rivendica una propria autonomia da Pechino.
A raccogliere la sua testimonianza è stata Maya Wang, ricercatrice senior per la Cina di Human Rights Watch e una delle autrici del rapporto Sradicare i virus ideologici: la campagna di repressione cinese contro i musulmani dello Xinjiang, presentato oggi dalla ong.
Human Rights Watch: come la Cina reprime gli uiguri
La colpa di Nur? Forse il fatto che un suo parente abbia chiesto asilo politico all’estero. Ma ancora oggi non ne ha la certezza:
«Alle 10 del mattino, cinque agenti di polizia si sono presentati a casa mia senza alcun mandato. Mi sono rifiutato di andare, ma loro mi hanno preso con la forza. Mi hanno detto che avevo “messo in pericolo la sicurezza dello stato” e che avevo “ospitato terroristi” – un mio parente aveva cercato asilo politico all’estero – quindi forse si riferivano a questo, ma non hanno detto nient’altro. Allora ho chiesto che prove avessero. Come potevano trattenermi senza ragione? E loro hanno risposto che dovevo firmare un documento, ma io mi sono rifiutato».
Il rapporto conferma: un milione di detenuti uiguri
Fino a qualche mese fa si aveva un’idea approssimativa degli effetti collaterali di “Strike Hard”, la campagna contro “l’estremismo religioso” che aveva colpito duramente gli uiguri lanciata da Pechino nel 2014, dopo una serie di attentati in questa lontana regione della Repubblica Popolare. Ma il documento presentato oggi da Human Rights Watch non sembra lasciare alcun margine ai fraintendimenti.
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Il rapporto, che parla di oltre un milione di detenuti nei cosiddetti campi di rieducazione, si basa principalmente sulle testimonianze di 58 ex residenti, tra cui 5 ex prigionieri e 38 parenti di detenuti, raccolte tra marzo e agosto del 2018. Diciannove degli intervistati hanno lasciato il paese nell’ultimo anno e mezzo.
Dal Tibet la soluzione contro “l’estremismo” in Xinjiang
Il livello di repressione nei confronti degli uiguri è aumentato con l’arrivo nel 2016 dell’ex segretario del Partito Comumista in Tibet, trasferito qui due anni fa.
«Dopo l’arrivo di Chen Quanguo, le autorità dello Xinjiang hanno diviso le persone in tre categorie: quelle di cui ci si può fidare, una più “generica” e quelle di cui non ci si può fidare. Poi hanno fatto sapere che quelle di cui non ci si può fidare devono essere messe “in luoghi sicuri”. E quali sarebbero questi “luoghi sicuri”? I campi di rieducazione», spiega Ilham (pseudonimo), che nel 2017 ha deciso di lasciare il paese.
Campi di rieducazione, strutture fuori dalla legge
Da allora, gli agenti hanno intensificato le detenzioni arbitrarie di massa nei centri di reclusione preventiva e nelle carceri, entrambi strutture formali, ma anche nei campi di rieducazione politica, che invece non hanno alcun fondamento secondo la legge cinese. Qui i turco-musulmani sono costretti a imparare il cinese e a lodare il Partito comunista. Coloro che resistono o che si ritiene non abbiano “imparato” vengono puniti.
A chi viene riunchiuso in questi campi non viene mossa alcuna accusa formale, per questo non hanno diritto né a un processo, né possono contattare gli avvocati o vedere la famiglia.
Annientati per cancellare cultura, lingua uigura e storia
Nel rapporto ci sono nuove prove relative ad arresti, torture, maltrattamenti e a controlli sempre più pervasivi nella vita quotidiana delle persone. A quanto pare, infatti, le autorità cinesi sottopongono gran parte della popolazione uigura (circa 13 milioni in tutto) a restrizioni così straordinarie sulla vita personale che, per molti aspetti, essere rinchiuso o essere libero non fa una gran differenza.
Una combinazione di misure amministrative, checkpoint e controlli del passaporto che limitano in modo del tutto arbitrario i movimenti. Non solo. L’indottrinamento politico è persistente anche al di fuori dai campi e comprende l’essere presenti agli alzabandiera del partito, a incontri politici e la frequenza obbligatoria di “scuole serali” di mandarino.
Il grande fratello cinese: controllato tutto il territorio
Gli sforzi per monitorare gli uiguri includono l’uso di tecnologie moderne e spesso all’avanguardia, di sorveglianza e biometriche. Uno stato di controllo totale, reso sistematico da un’altra campagna lanciata a dicembre del 2017 sempre dal governo centrale, Becoming Family (Diventando famiglia)
Si tratta di un programma di soggiorno obbligatorio, applicato sopratutto nelle zone rurali, per cui più di un milione di quadri del partito comunista trascorrono almeno cinque giorni ogni due mesi nelle case degli abitanti dello Xinjiang.
Uiguri perseguitati: repressione dell’islam nello Xinjiang
Con livelli senza precedenti di repressione delle pratiche religiose, le autorità hanno di fatto messo al bando l’islam. Portare la barba, indossare l’hijab, salutare con la frase in arabo “As-Salaam-Alaikum”, astenersi dal bere alcol o dal fumare, sono tutti atteggiamenti considerati sospetti, motivi per cui si può finire in un campo di rieducazione.
Ma anche il fatto di avere un passaporto straniero, di essere stati all’estero in uno dei 26 paesi “sensibili”, nella cui lista ufficiale compaiono Kazakistan, Turchia, Russia e Emirati Arabi Uniti. Lo stesso vale per l’utilizzo di strumenti di comunicazione stranieri come WhatsApp. Niente che costituisca davvero un crimine.
«Ho conosciuto un ragazzo… è stato preso perché aveva impostato l’orologio con l’ora (non ufficiale) di Urumqi (la capitale dello Xinjiang). Hanno detto che per questo era sospettato di terrorismo. Conosco tre proprietari di ristoranti, loro sono stati presi in custodia perché non permettevano ai clienti di fumare e bere alcolici all’interno dei loro locali. Le autorità hanno bandito tutto ciò che è “islamico”».
Onu: «Xinjiang immenso campo di internamento»
Il documento di Human Rights Watch non fa che corroborare quanto ribadito il 13 agosto scorso dal Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale delle Nazioni Unite (Cerd). In quell’occasione, ad accusare Pechino era stata l’americana Gay McDougall, vice presidente dell’istituzione.
«Sulla base di numerosi rapporti che abbiamo ricevuto, posso affermare che il governo cinese, in nome della lotta all’estremismo religioso e al fine di mantere una stabilità sociale, sta trasformando la regione autonoma della Xinjiang in qualcosa che ha tutto l’aspetto di un immenso campo di internamento avvolto nel segreto, una “no rights zone”, una zona al di fuori del diritto».
La Cina parla di «campi di formazione professionale»
Le accuse sono state respinte dai rappresentanti delle autorità della Repubblica Popolare, che comunque non hanno portato alcuna prova a sostegno della propria tesi. Anzi, l’immagine che Pechino dà dei campi è una versione edulcorata e idealizzata.
«Il governo ne parla in termini di “centri di rieducazione e formazione professionale” per “criminali autori di reati minori”», spiega Wang.
Eppure a nessuno è concesso il permesso per un sopralluogo. Né alle Nazioni Unite, né alle organizzazioni che difendono i diritti umani, né tantomeno ai giornalisti. Anzi, quelli che fanno inchieste sgradite vengono di fatto espulsi. Come è successo a Megha Rajagopalan, capo dell’ufficio pechinese di BuzzFeed News, a cui ad agosto è stato negato il rinnovo del visto dopo la pubblicazione di un suo reportage sulla condizione degli uiguri nello Xinjiang.
Uiguri: violazioni dei diritti umani e geopolitica
Secondo la ong si sta assistendo a una repressione imponente e sistematica, ma che rischia di passare inosservata a causa del peso che la Cina riveste in questo momento storico sullo scacchiere internazionale.
È evidente che Pechino non prevede un costo politico significativo per la sua campagna di repressione nello Xinjiang, in parte anche a causa della sua influenza all’interno del sistema delle Nazioni Unite, essendo un membro permanente del Consiglio di sicurezza.
«Il governo cinese sta commettendo violazioni dei diritti umani nello Xinjiang su una scala che è rimasta invisibile per decenni», ha affermato Sophie Richardson, direttrice cinese di Human Rights Watch. «La campagna “Strike Hard” è un test chiave per stabilire se le Nazioni Unite e i governi interessati sanzioneranno una Cina sempre più potente per porre fine a questo abuso».