Azerbaijan: il Consiglio d’Europa accusa la polizia di «torture sistematiche»
Le forze dell'ordine dell'Azerbaijan entrano nel mirino del Comitato contro la tortura del Consiglio d'Europa. L'organizzazione parla di schiaffi, pugni, calci, colpi di manganello e altri maltrattamenti fisici verso le persone detenute come sospetti criminali
Maltrattamenti fisici, vera e propria tortura e diritti negati, in un contesto di cultura della violenza dilagante. Le forze dell’ordine dell’Azerbaijan entrano nel mirino del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Secondo le ultime relazioni pubblicate in seguito alle visite effettuate dal Comitato in Azerbaijan, infatti, emerge con chiarezza che la tortura e altre forme di maltrattamento fisico da parte della polizia e di altre forze dell’ordine rimangono sistemiche, diffuse ed endemiche.
«Benché la decisione dell’Azerbaijan di pubblicare tutte le relazioni che finora sono rimaste riservate rappresenti un importante passo avanti, è giunto il momento – afferma Mykola Gnatovskyy, presidente del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti – che le autorità dell’Azerbaijan intraprendano un’azione decisiva per eliminare la tortura nel paese e attuare le raccomandazioni del Comitato».
Consiglio d’Europa in Azerbaijan: manca collaborazione
Dal 2004 ad oggi sono state sei le visite del Comitato in Azerbaijan, l’ultima nel 2017. L’obiettivo di verificare il trattamento e le condizioni di detenzione di persone sotto la custodia delle forze dell’ordine si è scontrato, in primo luogo, con la mancata collaborazione dei pubblici ministeri incaricati delle indagini sui casi sollevati dal Comitato e con l’impossibilità «di avere accesso – sottolinea il Comitato – ai file investigativi pertinenti. Tale persistente rifiuto di collaborare alla valutazione dell’efficacia delle indagini sulle accuse di maltrattamenti e torture è totalmente inaccettabile».
Parte dunque dalla mancata collaborazione della Procura generale la denuncia lanciata dal Comitato, che tuttavia, grazie alla cooperazione nei luoghi di privazione della libertà visitati dalla delegazione, ha potuto formulare nuove raccomandazioni.
Tortura e maltrattamenti da parte della polizia
Schiaffi, pugni, calci, colpi di manganello, colpi inflitti con un bastone di legno. Ma anche vere e proprie torture, come il colpo di manganello sulla pianta dei piedi (spesso mentre la persona era sospesa) e scosse elettriche. Sono le accuse giunte alla delegazione del Comitato relativamente ai maltrattamenti fisici di persone detenute dalla polizia come sospetti criminali, compresi i giovani di 15 anni.
I presunti maltrattamenti seguono un modello coerente in tutti i luoghi visitati: per lo più durante le interviste iniziali da parte di agenti di polizia (in alcuni casi anche da investigatori e alti funzionari responsabili degli stabilimenti di polizia), con lo scopo di forzare le persone a firmare una confessione o fornire altre informazioni.
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Durante l’ultima visita – rispetto a quelle effettuate negli anni precedenti – si è aggiunto un ulteriore motivo di preoccupazione. Le accuse di maltrattamenti fisici e torture, infatti, sembrano provenire anche da parte del personale di altre forze dell’ordine, come il Comitato doganale statale, il servizio di frontiera dello Stato e le forze armate.
Nessuna garanzia legale per i detenuti in Azerbaijan
C’è poi il capitolo garanzie legali per le persone private della libertà. Per quanto riguarda la notifica della custodia, l’accesso a un avvocato, un medico o più in generale a informazioni sui propri diritti, il Comitato ha evidenziato come le salvaguardie siano rimaste in gran parte lettera morta, inutilizzabili nella pratica.
La notifica della custodia è stata spesso ritardata. Il Comitato, pertanto, ha nuovamente invitato le autorità a riconoscere alle persone private della libertà il diritto di informare un parente o una terza persona della loro situazione, fin dal principio della loro privazione di libertà, parlando espressamente della necessità di registrare questo diritto per iscritto.
Anche l’accesso a un avvocato è sistematicamente ritardato, spingendosi fino a dopo che la persona ha confessato.
«Questo deplorevole stato di cose – sostiene senza mezzi termini il Comitato anti-tortura – che è chiaramente contrario alla legge e agli standard internazionali, diventa ancora più preoccupante se visto nel contesto delle accuse di tortura e altre forme di maltrattamento».
Molte persone detenute hanno affermato che, mentre erano sotto la custodia di un’agenzia di polizia, non sono state in grado di incontrare il loro avvocato in privato. Inoltre, in alcuni casi, le riunioni hanno avuto luogo alla presenza degli stessi ufficiali che avevano maltrattato le persone detenute e le sale riservate agli incontri con gli avvocati, in alcune degli stabilimenti di polizia visitati, non garantivano la riservatezza di tali riunioni.
Per quanto riguarda l’accesso a un medico per le persone sotto la custodia delle forze dell’ordine durante il periodo precedente al collocamento in un penitenziario, la pratica corrente continua a essere percepita principalmente come un mezzo per proteggere i funzionari di polizia (e gli altri agenti delle forze dell’ordine) da eventuali infondate accuse di maltrattamenti, piuttosto che come un diritto fondamentale della persona detenuta.
«Le disposizioni dovrebbero chiarire – afferma il Comitato – che una persona presa sotto la custodia di un’agenzia di polizia ha il diritto di essere esaminato, se lo desidera, da un medico di sua scelta, in aggiunta a qualsiasi esame medico effettuato da un medico chiamato dalle forze dell’ordine».
La cartina: dove si trova l’Azerbaijan
Da Baku a Sheki: le visite negli stabilimenti penitenziari
La delegazione del Comitato ha effettuato visite di controllo delle strutture di detenzione preventiva a Baku (Zabrat), Ganja e Shuvalan. E, per la prima volta, ha visitato le prigioni a regime misto a Sheki e Nakhchivan.
La delegazione ha rilevato alcuni risultati positivi, relativamente al «miglioramento del funzionamento del sistema carcerario e l’estensione dell’applicazione di misure alternative e preventive non detentive». Ma rimane una forte preoccupazione per la mancanza di progressi nella lotta alla corruzione in fase di pre-processo.
A Ganja, ad esempio, i detenuti continuano a essere obbligati a pagare per la maggior parte dei servizi di base, come visite, chiamate telefoniche, ricezione di pacchi e cibo dal negozio del carcere, a cui hanno diritto per legge.
Le condizioni materiali di detenzione sono state ritenute generalmente accettabili durante la detenzione preventiva nella struttura di Baku (Zabrat) e nelle prigioni di Sheki e Nakhchivan. Al contrario, le condizioni sono estremamente povere nelle strutture di detenzione preventiva a Ganja e Shuvalan, dove si trovano celle fatiscenti, sporche, scarsamente illuminate e ventilate, oltre a essere gravemente sovraffollate. Tanto che il Comitato chiede la chiusura di questi ultimi due stabilimenti.
Solo le carceri di Nakhchivan e Sheki hanno offerto un corso di formazione professionale, ma per un numero limitato di prigionieri condannati. Il lavoro continua a essere offerto solo a pochi prigionieri condannati assegnati a varie mansioni di pulizia e manutenzione. Inoltre, il Comitato ha criticato il fatto che le visite a breve termine negli stabilimenti penitenziari esaminati (tutte tranne che nel Nakhchivan) hanno continuato a svolgersi regolarmente in condizioni chiuse, attraverso vetro o sbarre, impedendo il contatto fisico tra detenuti e visitatori.
«Come primo passo il comitato anti-tortura – afferma il presidente Gnatovskyy – desidera che le autorità politiche di alto livello nel paese facciano una dichiarazione pubblica, ferma e inequivocabile di tolleranza zero nei confronti della tortura e di altre forme di maltrattamento. E auspichiamo il proseguimento della cooperazione con le autorità per aiutare l’Azerbaijan a rispettare i suoi obblighi sul divieto di tortura ai sensi dellaConvenzione europea sui diritti umani».