Agromafie e caporalato: 430 mila lavoratori a rischio sfruttamento
L'Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil fotografa la situazione nel suo quarto rapporto "Agromafie e caporalato". Un fenomeno che si estende dal Sud al Nord Italia. Tra giornate lavorative di 12 ore e pagate una manciata di euro
Cosa c’è dietro al cibo che mangiamo? Quanto è presente la criminalità agroalimentare? E il caporalato è circoscritto ad alcune zone e situazioni ben precise, oppure ha contorni troppo estesi per essere disegnati con precisione? Sono alcune delle domande a cui cerca di rispondere il quarto rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, che scatta una fotografia aggiornata della situazione in Italia.
Quarto rapporto Agromafie e caporalato: l’agricoltura in Italia
Agromafie e caporalato è un volume di oltre 350 pagine diviso in quattro parti. A partire dall’economia mafiosa, la cosiddetta «economia non osservata», chiamata così perché fa riferimento ad attività come evasione fiscale, contributiva e a quelle illegali, dove si inserisce facilmente la mafia. O meglio, l’agromafia, appunto.
Nella seconda parte, invece, si fa un excursus storico per capire come, dal 1950 fino ai giorni nostri, si sia cercato di contrastare lo sfruttamento lavorativo agricolo, quali norme sono state messe in atto e quali sono i rapporti tra i diversi attori della filiera.
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Interviste e casi studio compaiono invece nella terza parte, in cui le condizioni indecenti dei lavoratori sono raccontate dalle stesse vittime. Caporalato, turni di lavoro massacranti e una paga giornaliera lontana anni luce da quella che dovrebbe essere, sono caratteristiche comuni da Nord a Sud.
La quarta sezione, infine, offre una panoramica sulle organizzazioni criminali con un focus sulla mafia bulgara.
Lavoro irregolare e caporalato: business da 4 miliardi
Mentre si discute sulla validità o meno della Legge 199/2016 sul caporalato, a parlare sono soprattutto i numeri: l’economia «non osservata» in Italia si stima sia intorno ai 208 miliardi di euro, mentre il lavoro irregolare vale 77 miliardi, ossia il 37,3% del totale. Lavoro irregolare che incide per il 15,5% sul valore aggiunto del settore agricolo.
Andando più nel dettaglio, il lavoro non contrattualizzato insieme al caporalato rappresentano un business che, in Italia, vale ben 4,8 miliardi di euro, mentre 1,8 miliardi vengono dall’evasione contributiva.
A non aiutare l’agricoltura c’è poi il fenomeno dell’Italian sounding, cioè la contraffazione alimentare di quei prodotti – come il “Caccio cavalo” brasiliano, per esempio – che suonano simili agli italiani, ma che non hanno nulla a che fare con l’originale.
Un fenomeno che ha portato la Guardia di finanza in 4 anni, dal 2012 al 2016, a sequestrare prodotti per un valore di 1 miliardo di euro. Poca cosa, comunque, rispetto ai 60 miliardi che l’Italian sounding vale all’estero.
Agromafie e caporalato: 430 mila lavoratori a rischio
Ma la vera piaga, ancor più che i prodotti, sono i lavoratori a rischio. Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto, sono tra i 400 e i 430 mila quelli soggetti a lavoro irregolare e caporalato e, di questi, 132 mila sono ancora più a rischio perché fortemente vulnerabili.
Altro problema, in Italia, è rappresentato dal fatto che il 30% dei lavoratori agricoli lavora meno di 50 giornate all’anno. Una situazione di “lavoro grigio”, come la chiamano gli addetti ai lavori: i lavoratori fanno molte più giornate di quelle segnate e così diventa impossibile ottenere il sussidio di disoccupazione.
Migranti, risorsa fondamentale per l’agricoltura
In questo panorama, una parte consistente è dedicata al lavoro migrante, che si confermano essere una risorsa fondamentale.
Stando ai dati Inps, nel 2017 sono state messe in regola quasi 300 mila persone, pari ad appena il 28% del totale. A chiarire ancor meglio la situazione è il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea):
«I lavoratori stranieri in agricoltura (tra regolari e irregolari) sarebbero 405 mila, di cui il 16,5% ha un rapporto di lavoro informale (67 mila unità) e il 38,7% ha una retribuzione non sindacale (157 mila unità)».
Le storie di lavoro sfruttato nei territori riguardano 7 regioni: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Puglia, Basilicata e Sicilia.
Le insalate di Bergamo e i braccianti di origine straniera
In Lombardia, per esempio, il Bergamasco si presenta con circa 6.500 aziende agroalimentari. La coltura principale qui, insieme alla viticoltura, è la cosiddetta IV gamma, ossia le insalate/verdure monoporzione già pulite, tagliate e confezionate, di grande interesse per la grande distribuzione organizzata.
«Questa significativa produzione – sia in termini di volumi di mercato, di ricchezza prodotta e di impiego di manodopera – determina anche delle sacche di lavoro non standard», si legge nel rapporto. Situazioni «di natura servile e di mero sfruttamento, soprattutto con i braccianti avventizi di origine straniera».
Dice un’intervistata riportata nel documento: «Ci sono tre tipi di lavoratori stranieri. I primi sono gli indiani e i pakistani che sono presenti da oltre 20 anni, lavorano in cascina e sono disponibili 24 ore su 24, non escono mai e sono come bloccati nel luogo di lavoro. Ma non si lamentano, sono del tutto fidelizzati al datore di lavoro»
I secondi sono lavoratori che non sono occupati in cascina ma nel settore agricolo più in generale, svolgendo lavori con una qualifica certa: «Vengono ingaggiati dalle agenzie interinali e anche dai caporali, sono costretti a pagare questi ultimi per il trasporto e la mediazione con le imprese. Guadagnano meno, molto meno di quanto è previsto dai contratti. Circa la metà, più o meno».
Ci sono poi i cosiddetti “terzi tipi”, quelli che arrivano per le raccolte stagionali, che sono quelli più sfruttati e vulnerabili.
«Lamentano retribuzioni basse, non pagate e anche spese decurtate come l’acqua, il panino, il trasporto».
Il significato di agromafie e caporalato per i lavoratori? 20-30 euro a giornata e 12 ore nei campi
Il Bergamasco è solo un esempio. La paga media, in genere, si aggira tra i 20 e i 30 euro al giorno, il lavoro a cottimo sui 3-4 euro per un cassone da 375 kg; un salario inferiore di circa il 50% di quanto previsto dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Inoltre, i lavoratori sotto caporale devono pagare loro il trasporto a seconda della distanza (5 euro in media), i beni di prima necessità (1,5 euro un litro d’acqua e 3 euro il panino, per esempio).
L’orario medio va da 8 a 12 ore di lavoro al giorno. Le donne percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi. Nei gravi casi di sfruttamento analizzati, alcuni lavoratori migranti percepivano un salario di 1 euro l’ora.
Il 25% delle aziende ricorre ai caporali
Una situazione che è avallata dalle aziende: sono 30 mila quelle che ricorrono all’intermediazione tramite caporale, circa il 25% di quelle che impiegano manodopera dipendente in Italia.
Il 60% di queste aziende ingaggia quelli che nel Rapporto sono definiti «caporali capi-squadra», che si differenziano per rapporti di lavoro comunque decenti (seppur irregolari), da quelli indecenti e gestiti dai caporali collusi con le organizzazioni criminali, se non addirittura mafiose.
E il Sindacato cosa fa ? E lo Stato d’ove è ? Che fare ?