Hotspot migranti, Garante detenuti: «Violati diritti persone straniere»
Il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, denuncia le criticità nei centri di detenzione per migranti in Italia. E attacca la gestione del sistema hotspot, che viola spesso i loro diritti. «Rispetto dei diritti fondamentali? Solo una dichiarazione di principio». Il rapporto cita il caso di Lampedusa e il nodo della normativa
La complessità che nasce dalla presenza di immigrati irregolari nel nostro paese non può giustificare esperienze drammatiche, persino episodi violenti, nei centri di detenzione. È imponente l’accento che Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, pone sul tema dei flussi migratori nella relazione presentata al Parlamento. Palma parla della necessità di strutture di detenzione differenti, di minore capienza, ma soprattutto rispettose dei diritti delle persone “ristrette”, non assimilabili al carcere.
«Anche perché – sostiene Palma – destinate ad accogliere persone che nulla hanno da espiare, o perché ristrette in base a uno status di irregolarità e non in base a un reato commesso. Questa attesa ancora perdura e non si vedono i segni tangibili del cambiamento promesso».
I numeri dei flussi migratori
Nel 2017 sono sbarcate sulle nostre coste 119.369 persone: tra loro, 13.121 donne e 17.337 minori. E tra questi ultimi, 15.779 erano non accompagnati. «Sono numeri che fanno riflettere – afferma il Garante – sulla necessità che il problema relativo all’irregolarità dei migranti che giungono senza documenti dopo questi avventurosi viaggi via mare, venga affrontato non con strumenti di eccezione, ma con quelli che attengono a un problema strutturale, probabilmente destinato a impegnare il nostro Paese per molti anni»
Le persone sbarcate in Italia provengono da 63 nazionalità diverse, con la punta massima della Nigeria (18.158) e minima del Burundi (uno soltanto). Il numero dei minori non accompagnati, invece, è più alto per i bambini e adolescenti provenienti da Gambia, Eritrea e Somalia.
Hotspot attivi in Italia: quattro centri per migranti
Di hotspot, i centri attrezzati per identificare i migranti, ad aprile 2018 ne risultavano operativi quattro: a Messina, Pozzallo, Trapani e Lampedusa (questi ultimi due oggetto di visite da parte del Garante, mentre quello di Taranto era stato chiuso per lavori). Gli ingressi in queste strutture sono diminuiti, in corrispondenza del calo degli arrivi rispetto all’anno passato. Se nel 2016 erano stati 65.295, nel 2017 sono stati 40.534.
Parallelamente si è registrata una crescita del numero delle persone transitate nei centri di trattenimento (+36%), del numero dei centri stessi e delle persone rimpatriate in maniera forzata con scorta internazionale (+25%).
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Hotspot migranti: normativa Italia è limbo giuridico
Il nodo hotspot porta il Garante ad esprimere forti perplessità, che nascono dalla natura giuridica incerta di questi posti, che rispondono a funzioni diverse che ne modificano continuamente il carattere e la disciplina. Se da un lato, infatti, appaiono come luoghi a vocazione umanitaria per le attività di primo soccorso, assistenza, informazione e di prima accoglienza per chi ha manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale, dall’altro sono luoghi di svolgimento delle procedure di identificazione/foto-segnalamento e di avvio delle operazioni di rimpatrio forzato. Procedure che impongono agli ospiti il divieto di allontanarsi dal centro fino alla loro conclusione e il ricorso alla coercizione nell’esecuzione dei provvedimenti di respingimento differito.
Il caso Khalaifia: Italia condannata su approccio hotspot
Basti ricordare il caso Khalaifia, in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel dicembre 2016, ha condannato il nostro paese per violazione, tra gli altri motivi, dell’articolo 5 della Convenzione per aver trattenuto nel centro di Lampedusa tre cittadini tunisini per un periodo prolungato appena arrivati in Italia, senza una base legale e senza la possibilità di ricorso.
«L’ambiguità giuridica di questi luoghi – si legge nella relazione – finisce per incidere sulla libertà personale degli ospiti, che oltretutto non possono godere di una tutela giurisdizionale».
Anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) ha invitato le Autorità italiane a stabilire per legge i casi in cui i cittadini stranieri possano essere privati della libertà personale all’interno degli hotspot.
Sistema hotspot: tempi di permanenza e sicurezza
Senza dimenticare il capitolo relativo ai tempi di permanenza negli hotspot. Se, come spesso accade, si oltrepassano le 24-48 ore previste dalle direttive ministeriali, la prolungata convivenza forzata di migranti, oltre a frustrare le aspettative di coloro che necessitano di protezione, può portare a situazioni di tensione che mettono a rischio la sicurezza degli operatori e di tutti gli ospiti all’interno del centro.
Hotspot Lampedusa simbolo di tensioni
L’hotspot di Lampedusa è divenuto il simbolo di tali tensioni. Tra gennaio e marzo di quest’anno, infatti, si sono registrati numerosi eventi critici, come la rissa tra gli ospiti del centro che ha portato al ferimento al volto di un cittadino tunisino, il ferimento di un carabiniere in servizio, oltre all’incendio di alcuni moduli abitativi.
Centri di permanenza «senza diritti fondamentali»
Creati dal decreto Minniti per sostituire i Cie (centro di identificazione ed espulsione), i Cpr (Centro di permanenza per i rimpatri) presenti in Italia sono cinque: Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma e Torino. A distanza di poco più di un anno dalla loro creazione, «va purtroppo rilevato – si legge nella relazione – che le rinnovate espressioni di impegno a favore dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali sono rimaste dichiarazioni di principio, cui non hanno fatto seguito un effettivo miglioramento delle condizioni di vivibilità e/o una diversa impostazione organizzativa delle strutture».
Nel 2017 sono state accolti in questi centri 4.087 migranti irregolari, dei quali sono stati effettivamente rimpatriati 2.396. Il maggior numero di persone effettivamente rimpatriate provenienti dai centri ha riguardato la Tunisia: circa una metà (1.471 casi, su un totale di 2.237).
Il nodo dei rimpatri forzati di migranti
Il problema evidente, fa notare il Garante, è la scarsità degli accordi di rimpatrio, il più rilevante dei quali riguarda proprio la Tunisia, verso cui sono organizzati rimpatri secondo quote settimanali. Sono stati complessivamente realizzati 78 voli charter, suddivisi tra Tunisia – che copre la loro quasi totalità – Nigeria, Egitto e una partecipazione a un volo organizzato da un altro Stato membro verso il Pakistan. Il numero complessivo dei rimpatri è aumentato e nel 2017 ha raggiunto il valore di 6.514, 700 in più rispetto all’anno passato.
Il Garante mette in evidenza le pratiche che continuano ad essere adottate nel corso delle operazioni di rimpatrio forzato, come la consuetudine di tenere anche per molte ore i polsi di chi deve essere rimpatriato legati tramite fascette in velcro.
Un’altra pratica che il Garante nazionale ritiene debba essere rivista al più presto è quella di non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria.
Diritti rimpatriati violati: il caso dell’aeroporto di Palermo
Non si ritiene accettabile, infine, che le persone da rimpatriare trascorrano, in attesa dell’audizione consolare o dei controlli di sicurezza in aeroporto, anche diverse ore in piedi in aree all’aperto, quindi esposti a estremo calore d’estate o freddo d’inverno, oppure in locali fatiscenti non dotati di sedili, né di tavoli per consumare i pasti e le bevande. Un esempio su tutti è la struttura aeroportuale dedicata di Palermo, considerata dal Garante non idonea, né per le persone da rimpatriare, né per gli operatori di polizia.
«Resta evidente – afferma il Garante – la necessità di favorire forme di partenze volontarie assistite, così come indicato dalla Direttiva europea del 2008, poiché queste hanno riguardato solo 53 persone in tutto l’anno, pari allo 0,8% del totale dei rimpatri».