Giovanni Falcone, storia di un grande uomo: dalla lotta alla mafia alla strage di Capaci
La lotta alla mafia. La collaborazione con Paolo Borsellino e il pool antimafia. Il maxiprocesso. E poi l'isolamento. Fino alla strage di Capaci del 23 maggio 1992. Ecco la storia di Giovanni Falcone, un grande uomo dei nostri tempi, e la situazione della lotta a Cosa nostra oggi in Italia
da Palermo
«Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno». Lo diceva il giudice Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia un sabato pomeriggio di 26 anni fa sull’autostrada – allo svincolo di Capaci – con 400 kg di tritolo. Con lui, quel sabato pomeriggio, c’erano la moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillio.
Breve biografia di Giovanni Falcone
Falcone era il magistrato simbolo della lotta alla mafia. Facciamo un passo indietro. Nel quartiere arabo della Kalsa di Palermo, dove il piccolo Giovanni era cresciuto, esistevano per lui la scuola, l’Azione cattolica e pochi divertimenti. Il padre era un uomo austero: per lui non esistevano viaggi e villeggiatura. Anche la madre era, come diceva il giudice, «una donna energica e autoritaria».
«Con i 7 e gli 8 la mia pagella veniva considerata brutta», raccontava il magistrato. Aveva frequentato il liceo classico. Poi l’Accademia militare di Livorno, quindi – dopo averci ripensato – si iscrisse a Giurisprudenza. Si laureò a pieni voti.
Poi la carriera: iniziò come pretore a Lentini (Siracusa), poi a Trapani, dove rimase per 12 anni. Seguì il trasferimento a Palermo, dove si occupò del processo al costruttore edile Rosario Spatola, accusato di associazione mafiosa. Falcone accompagnò l’istruttoria con indagini bancarie e societarie, utilizzando un metodo d’indagine innovativo. Di Cosa Nostra diceva:
«La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine».
Strage di Capaci: cosa è successo il 23 maggio 1992
Era il 23 maggio, un sabato pomeriggio, del 1992. Le lancette stavano per segnare le 18 quando alle porte di Palermo e nel paese di Capaci un boato spezzò la quotidianità. Seguito dal frastuono di allarmi impazziti e sirene di ambulanze, auto degli agenti e vigili del fuoco che viaggiavano verso l’aeroporto di Palermo.
Lungo l’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi, oggi Falcone-Borsellino, con il capoluogo siciliano, trovarono la morte il giudice, la moglie e gli agenti della scorta. Era stato scelto quel luogo per commettere la prima strage del 1992, cui seguirà appena due mesi dopo l’attentato al giudice Paolo Borsellino, suo caro amico e collega.
Paolo Borsellino e Giovanni Falcone (via Flickr)
Il giudice approfittava dei fine settimana per tornare da Roma a Palermo e quel giorno si trovava lui alla guida della Croma. A bordo, sul sedile, lato passeggero, c’era seduta la moglie Francesca Morvillo, mentre dietro si trovava l’autista, Giuseppe Costanza.
Erano le 17.58 quando il manto stradale dell’autostrada da dove si intravede Isola delle Femmine saltò in aria. La prima auto con a bordo i tre uomini di scorta andò distrutta. Si trattava di Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillio. Mentre dietro si trovava la Croma, sulla quale viaggia il giudice con la moglie e l’autista, che venne tranciata.
Da dietro, dalla terza macchina di scorta, scesero gli altri tre agenti illesi: Gaspare Cervello, Paolo Capuzza, Angelo Corbo. I tre uomini raggiunsero immediatamente l’auto squarciata: il giudice era ancora vivo, incastrato tra le lamiere.
«Se resto vivo, questa volta gliela farò pagare…», sussurrava mentre i vigili del fuoco lo stavano soccorrendo insieme alla moglie Francesca.
Morte di Giovanni Falcone, della moglie e dei tre agenti
Il giudice, 53 anni, non ce la farà: morirà prima che l’ambulanza riesca a raggiungere l’ospedale. Mentre la moglie Francesca morirà 5 ore dopo, nella sala operatoria.
L’autista, che si trovava seduto dietro, rimase illeso. Lontano, in un campo, si trovavano i resti della Croma di scorta, quella che precedeva il giudice, con i corpi dilaniati dei tre agenti.
Mentre a 400 metri circa dal luogo della strage, su una collina, c’erano i tre uomini che hanno agito: uno di loro è Giovanni Brusca, il picciotto di Totò Riina, mandante dell’omicidio, che venne arrestato il 16 gennaio 1993.
Il testamento morale lasciato dalla vita di Falcone
Falcone ha lasciato alla comunità un testamento morale: legalità, umanità, diritti, coraggio e amore. Ha insegnato a tutti che non bisogna arrendersi mai. Ha insegnato agli altri il rispetto, il sacrificio, limitando la sua libertà.
L’unica cosa che si concedeva della sua vita ormai blindata era il nuoto, rinunciando al mare e ripiegando sulla piscina comunale di Palermo. Anche in questo caso, con difficoltà: non poteva andarci nelle ore di punta. La scelta era quella di andare all’alba o la sera tardissimo, naturalmente in momenti sempre diversi.
Non poteva più andare al cinema: decisione obbligata, dal momento che ogni volta dovevano liberare quattro file di poltrone. E doveva rinunciare ai ristoranti: accadeva che la gente si alzasse per cambiare tavolo.
Eppure lui ha amato questa gente, la sua gente, ha amato la sua terra fatta di sole, di mare, d’arance. La sua terra fatta di affanni, di armi e di morti. Ha lasciato un vuoto e tanta amarezza per quel che ha rivelato la sua morte: il nostro Paese ostacolava i magistrati “scomodi”, proprio perché guardano e adempiono i loro doveri senza piegarsi alla volontà di nessuno.
La guerra di mafia: Totò Riina contro tutti
Dal 27 settembre 2017 il nuovo Codice antimafia è legge. Per comprendere come è cambiata la legge in materia, però, è necessario cominciare dal 1981 e dai primi mesi del 1982. Erano gli anni in cui era cominciata la guerra di mafia: un morto ogni tre giorni, per un totale di 1.200 vittime, che colpirono le file delle cosche nemiche del boss Totò Riina.
Era emerso che dietro a questi omicidi c’erano i “viddani”, i contadini, di Corleone, un paese vicino Palermo, e che Riina era il loro capo. Erano i tempi del Maxiprocesso di Palermo.
Gli omicidi di Pio La Torre e Dalla Chiesa
Nel 1983 finì questa guerra, ma ciò non impedì ai corleonesi di scagliarsi, un anno prima, contro lo Stato: era la mattina del 30 aprile 1982 quando fu ucciso a Palermo Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista e membro della Commissione antimafia. Era il momento di rispondere alla violenza mafiosa.
Così il governo inviò in Sicilia come prefetto antimafia il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Passarono pochi mesi e il 3 settembre anche Dalla Chiesa fu ucciso insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro.
La nascita del pool antimafia e la stagione dei pentiti
Riina era ormai impegnato in uno scontro frontale con lo Stato. E il 29 luglio 1983 un’autobomba uccise Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Il Consiglio superiore della magistratura scelse come suo sostituto Antonino Caponnetto, 63 anni.
Proprio Chinnici aveva avuto l’idea, nel 1980, di costituire un pool antimafia, che sarà guidato da Caponnetto dal 1984 al 1990. Il primo scelto fu proprio Giovanni Falcone, seguì Giuseppe Di Lello Finuoli, poi, su consiglio di Falcone, Paolo Borsellino. Ai magistrati, qualche tempo dopo, si unì alla lotta contro Cosa Nostra anche il procuratore Leonardo Guarnotta.
Foto: Francesco Gazzola (via Flickr)
Il lavoro del pool andava avanti spedito e via via cresceva il numero dei pentiti. A cominciare da Tommaso Buscetta, che decise di parlare solo con Falcone. Il risultato furono 366 mandati di arresto.
Nuovi attentati e maxiprocesso di Falcone e Borsellino
Nel frattempo Riina lavorava nell’ombra per preparare nuovi attentati. Il 28 luglio 1985 fu ucciso Beppe Montana, capo della sezione Latitanti della polizia di Palermo. Poi toccò, pochi giorni dopo, a Ninni Cassarà, vicedirigente della squadra mobile, nonché stretto collaboratore di Falcone.
Falcone e Borsellino furono trasferiti con le rispettive famiglie all’Asinara, un’isola-carcere che si trova a nord-ovest della Sardegna, dove si occuparono di concludere l’istruttoria del maxiprocesso. Un periodo durato 33 giorni.
Si arrivò così al maxiprocesso con 475 imputati, il più grande attacco alla mafia, che iniziò il 10 febbraio 1986 e si chiuse il 16 dicembre 1987 con 360 condanne e 114 assoluzioni.
Cambio al vertice: l’isolamento di Giovanni Falcone
Caponnetto, sicuro di essere sostituito da Falcone alla guida del pool antimafia, lasciò la sua esperienza palermitana. Ma il suo posto fu preso da Antonino Meli, che aveva una scarsa esperienza in materia di processi di mafia. Da qui la riflessione di Caponnetto: da quel giorno «Falcone cominciò a morire».
Meli cominciò ad assegnare ai magistrati esterni le inchieste di mafia. Mentre sulle scrivanie di Falcone e dei suoi colleghi finirono indagini per borseggi, scippi, assegni a vuoto.
Fu bocciata la candidatura Falcone ad alto commissario per la lotta antimafia. Il governo nominò invece Domenico Sica. L’alternativa di Falcone fu quella di candidarsi al Csm, ma non fu eletto.
Un attentato ai danni del magistrato all’Addaura fu poi sventato nel giugno del 1989.
Si innescò poi un duro scontro tra Meli e Falcone per un’inchiesta collegata alle confessioni del pentito Antonino Calderone. Mentre Meli voleve dividere il processo tra 12 procure diverse, seguendo la competenza territoriale, Falcone insisteva affinché se ne occupasse il pool. Questo per impedire che le indagini si disperdessero, visto che la matrice mafiosa era la stessa. Alla fine vinse Meli. E questo decretò la fine del pool.
Falcone va a Roma, ma la lotta a Cosa nostra continua
Ne seguirono altri attacchi, delusioni, che portarono il magistrato palermitano ad accettare la proposta del nuovo ministro della Giustizia Claudio Martelli: lasciò Palermo per la direzione degli Affari penali a Roma.
Dalla capitale Falcone continuò il suo impegno contro Cosa nostra. Ideò un decreto, che fece tornare in carcere gli imputati di Cosa nostra scarcerati grazie a una sentenza di Corrado Carnevale, soprannominato “Ammazzasentenze”, e presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione.
Così, per evitare la sua possibile influenza sull’esito finale del Maxiprocesso, Falcone ideò pure la rotazione dei giudici della Corte Suprema. Ne seguì l’assegnazione di Carnevale ad altro incarico. Quindi la Cassazione confermò le condanne.
Borsellino e Falcone ancora insieme contro la mafia
Nel frattempo Paolo Borsellino era rientrato a Palermo come procuratore aggiunto e aveva assunto un ruolo direttivo nelle indagini di mafia, mentre da Roma Falcone ottenne dal governo l’approvazione di un piano per riorganizzare la lotta alla mafia.
A Riina fu dato l’ergastolo e la sua vendetta fu un altro omicidio: il 12 marzo 1992, a Mondello, fu ucciso Salvo Lima, capo della corrente andreottiana in Sicilia. Da qui la strage di Capaci.
La sentenza sull’omicidio di Falcone
Tra depistaggi, deviazioni e falsi pentiti si è raggiunta una verità giudiziaria: tutti gli uomini della Cupola hanno avuto l’ergastolo per le stragi. In tutto questo però mancano “i mandanti altri” (lo dice la sentenza del processo Capaci bis), quelli che avevano, insieme alla mafia un unico progetto: uccidere Falcone.
La nuova legge: il codice antimafia
Il 27 settembre 2017 è stato approvato in via definitiva alla Camera con 259 voti a favore, 107 contrari e 28 astenuti, il nuovo Codice antimafia. Tra le novità è stata fatta particolare attenzione al sequestro dei beni: la confisca dei beni si applica non più solo ai mafiosi, ma anche a coloro che hanno commesso reati di corruzione, concussione, terrorismo e stalking.
Si tratta di una riforma che punta a velocizzare le misure di prevenzione patrimoniale, rendendo più trasparente la scelta di amministratori giudiziari e include tra i possibili destinatari dei provvedimenti i corrotti, gli stalker e i terroristi.
Il decreto prevede l’adozione di un insieme unico di norme, che è stato suddiviso in quattro libri: Libro I, le misure di prevenzione; Libro II, la documentazione antimafia; Libro III: Le attività informative ed investigative nella lotta contro la criminalità organizzata. L’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata; Libro IV: Modifiche al codice penale e alla legislazione penale complementare. Abrogazioni. Disposizioni transitorie e di coordinamento.
Storia del fenomeno mafioso
In lingua italiana, il primo uso del termine “mafioso” risale a una commedia del 1863, dal titolo “I mafiosi della Vicaria”, ambientata nel carcere della vicaria di Palermo e scritta da Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca.
Il termine mafia, invece, accostato all’associazione a delinquere e alla malavita organizzata si trova in un rapporto del 1865 di Filippo Antonio Gualtiero, procuratore capo di Palermo. Si tratta di un fenomeno storico e, secondo i sociologi e gli studiosi, prima ancora di definirlo un’organizzazione criminale, va definito un fenomeno sociale, un’organizzazione di potere. Un fenomeno a cui hanno partecipato i grandi latifondisti prerisorgimentali, uomini dello Stato e anche parte della popolazione borghese, dopo la rivoluzione industriale.
La criminalità organizzata siciliana vede protagonisti i viceré borbonici, prima ancora dell’unità d’Italia. La Sicilia per secoli ha subito varie dominazioni e non ha avuto uno Stato sovrano. Questo non ha permesso di garantire la giustizia e la protezione ai cittadini.
In questa situazione si sono sviluppate forze capaci di sostituire lo Stato, di distribuire favori e violenze. Personaggi col titolo di “Don” e “Padrini”.
È un mondo invisibile con le sue regole, le sue guerre e i suoi capi. Un mondo capace di trasformare e strappare i figli ai propri genitori per instradarli e farne ragazzi violenti, assassini, attraverso l’affiliazione, una sorta di rito. In più la mafia chiama “famiglie” le proprie organizzazioni.
«Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi» (Giovanni Falcone)