Curdi: storia di Nurcan, donna e giornalista perseguitata in Turchia
Donna, curda e giornalista: è Nurcan Baysal la vincitrice del premio per i difensori dei diritti umani a rischio dell'ong Front Line Defenders. L'attivista racconta a Osservatorio Diritti la propria storia, fatta di persecuzioni da parte del regime di Erdogan per le denunce degli attacchi contro i curdi in Siria e altre violazioni dei diritti umani
Essere curdi, donne e giornalisti nella Turchia di Erdogan può essere molto rischioso. Come dimostra la storia di Nurcan Baysal, che sta pagando sulla propria pelle questa condizione. E che, con il suo lavoro infaticabile, si è meritata il premio “globale” del Front Line Defenders Award for Human Rights Defenders at Risk, un riconoscimento assegnato proprio oggi dall’ong irlandese Front Line Defenders a cinque attivisti, associazioni e movimenti, uno per ciascuna regione del mondo.
Gli altri premiati dall’organizzazione non governativa sono Soni Sori (India), Lucha movement (Repubblica Democratica del Congo), La Resistencia Pacífica de la Microregión de Ixquisis (Guatemala) e Hassan Bouras (Algeria). Il premio è consegnato da Kate Gilmore, vice Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Donna, attivista curda e giornalista in Turchia
Nurcan Baysal è l’emblema di vari settori della società turca, tutti allo stesso modo vulnerabili. È una donna in un mondo patriarcale. È curda, un gruppo altamente marginalizzato e percepito come “nemico”. Non è politicamente schierata, un atteggiamento super partes difficile da mantenere in una regione come il Kurdistan, dove il clima è altamente politicizzato.
A Osservatorio Diritti ha voluto sottolineare come questo riconoscimente sia fondamentale per portare avanti il suo lavoro:
«Questo premio è molto importante per me perché mi dà il potere di continuare a parlare e scrivere, di uscire dal cono d’ombra in cui mi trovo in quanto giornalista, donna, curda e difensora dei diritti umani. Questa attenzione che mi viene data è utile non solo a livello internazionale, ma anche e soprattutto in Turchia. E per questo mi sento ancora più responsabile nel dare voce alle persone curde, che troppo spesso non vengono ascoltate».
Difensori dei diritti umani ai tempi di Erdogan
Tre giorni di prigione per cinque tweet. Una condanna a dieci mesi di carcere, che potrebbero trasformarsi in tre anni, per un articolo. Chi difende la libertà di espressione e denuncia le violazioni dei diritti umani dovrebbe semplicemente riscuotere un premio.
Nella Turchia dei giorni nostri, invece, Nurcan Baysal ha ricevuto minacce di morte, messaggi offensivi da parte di individui e gruppi filo-governativi e subìto vessazioni giudiziarie dal governo.
Vietato parlare dell’attacco ad Afrin (Siria) a Isis e Ypg
A gennaio 2018, Nurcan è stata arrestata per aver fatto «propaganda a favore dei terroristi», perché su Twitter ha parlato di pace e condannato l’incursione dell’esercito turco nella città curda di Afrin.
«Quello che portano i carri armati non sono “rami di ulivo”, sono bombe. Quando cadono, le persone muoiono. Ahmet sta morendo, Hasan sta morendo, Rodi sta morendo, Mizgin sta morendo… Le vite stanno finendo», recitava uno dei suoi tweet.
Il riferimento è all’operazione militare, ribattezzata paradossalmente “Ramo d’ulivo”, che il governo di Ankara ha lanciato il 20 gennaio scorso in appoggio ai “ribelli” siriani di stanza in Turchia, per «ripulire» la città di Afrin (Kurdistan siriano) dai «terroristi». Laddove per terroristi non si intendono solo gli jihadisti dell’Isis, ma anche le forze dell’Ypg (Unità di protezione del popolo), costola in Siria del Partito dei lavoratori del Kurdistan, il Pkk, uno degli acerrimi nemici del presidente Recep Tayyip Erdoğan.
L’arresto dei militari turchi e la solidarietà della gente
Per questo e altri tweet dello stesso tenore, una notte di gennaio, 20 uomini delle forze armate, a volto coperto e armati di kalashnikov hanno fatto irruzione nella casa dove Nurcan vive con suo marito e i suoi due figli. L’hanno presa e portata in prigione.
Ma dopo tre giorni l’hanno dovuta rilasciare per il tanto clamore che il suo arresto ha suscitato nei suoi concittadini. Per la solidarietà che le persone hanno dimostrato nei suoi confronti, dall’uomo qualunque fino all’imam.
«A livello locale sono molto conosciuta, anche per il mio impegno come attivista, quindi quando le persone hanno saputo che mi avevano portata in carcere, si sono presentati in centinaia prima a casa mia e poi davanti al tribunale per richiedere il mio rilascio. Credo sia per questo che alla fine mi hanno lasciata andare, o forse sono stata solo fortunata. In effetti non è facile capire come agisca il governo turco. A volte basta un post, un’affermazione che possa essere male interpretata, e si finisce in carcere».
Condannata per aver denunciato soprusi contro i curdi
A febbraio è stata giudicata colpevole di aver umiliato le forze di sicurezza di Ankara per un articolo del 2016, in cui criticava l’operazione militare turca a Cizre. L’esercito aveva accerchiato la città curda, chiudendo tutte le vie di fuga, e imposto un coprifuoco di otto giorni.
La popolazione aveva un accesso limitato all’acqua e al cibo e molti dei feriti non potevano ricevere cure mediche. A pronunciarsi in termini critici era stato anche il Consiglio d’Europa, preoccupato per «l’uso sproporzionato della forza da parte dei militari contro i civili».
«Nell’appartamento c’era della biancheria intima da donna sul pavimento della camera da letto. Il ragazzo che era con me mi ha detto che in tutti gli appartamenti che hanno distrutto, c’erano mutande da donna. Tra le mutande c’erano anche foto di donne e preservativi usati lanciati in giro a caso… Che tipo di mentalità è questa, che razza di follia… Che cosa è successo in queste case? Si dice che le persone siano state molestate e persino violentate dietro le porte chiuse di Cizre. E quello che ho scritto riguarda solo un edificio!» (dall’articolo Behind the closed doors of Cizre)
Parole che parlano di distruzione, stupri, soprusi. Per questo è stata condannata a 10 mesi di reclusione, che potrebbero diventare tre anni se il giudice, a ottobre, dovesse optare per la pena più dura.
«Con questo articolo ho voluto denunciare i crimini di guerra perpetrati dalle forze armate turche. Penso che il motivo per cui proprio questo articolo ha suscitato così tanta rabbia è perché ho presentato al giudice le prove di quello che i militari avevano fatto a Cizre. Gli ho consegnato centinaia foto e gli ho detto che non ero io quella che dovevano incriminare, ma le persone che hanno commesso questi crimini».
«Lo stato di emergenza in cui si vive in Turchia dopo il colpo di stato del luglio 2016 – ha precisato ancora a Osservatorio Diritti – ha dato al governo carta bianca nei confronti dei giornalisti e degli oppositori, o meglio, considerati tali. In miglialia sono finiti in carcere senza una vera ragione. Il premio che mi è stato dato può quindi essere considerato un messaggio al governo affinché ponga fine a questo perenne stato di eccezione».
Giornalisti nel mirino di Erdogan
Come si legge nell’ultimo rapporto di Reporter without borders, «la Turchia – infatti – continua a essere la più grande prigione al mondo per i giornalisti. Molti di questi passano più di un anno in carcere prima di essere processati e le sentenze pesanti sono ormai diventate la norma, per non parlare di alcuni casi in cui è stato inflitto l’ergastolo senza margine di revisione della pena».
Ma Nurcan non ha nessuna intenzione di smettere di denunciare. Lo ha sempre fatto, fin da giovane, fin da quando si è impegnata nella difesa dei diritti umani in Kurdistan fondando e collaborando con numerose ong. E anche dopo il tentato golpe del 2016, che ha portato in Turchia alla rottura del processo di pace e riconciliazione tra il governo e la minoranza curda. E, a maggior ragione, dopo che la sua città è stata bombardata per diversi giorni e quasi completamente distrutta.
Ha sempre viaggiato in varie città della regione, ascoltando le persone e pubblicando le loro storie nella sua colonna online sul sito T24. E continuerà a farlo «per dare a queste persone, alla minoranza curda, una speranza».