Festa del Lavoro: a che punto siamo con i diritti in Italia
In questo 1° maggio, in occasione della Festa del Lavoro 2018, ecco un'analisi dei diritti dei lavoratori in Italia. Troppo spesso in bilico sul crinale della violazione delle regole. In questo articolo: parità di genere, maternità, mobbing, disabilità, discriminazione, caporalato, sicurezza sul lavoro, sfruttamento
Ogni anno, il 1° maggio, ricorre la Festa del Lavoro che in Italia si celebra con concerti, manifestazioni e persino scioperi, segno che c’è ancora molto da fare per tutelare i diritti dei lavoratori.
Già, ma a che punto siamo? Quanto ancora le donne subiscono la disparità sul posto di lavoro? E quanto chi è di nazionalità diversa, ha una fede differente, opinioni proprie viene discriminato? E quante persone svolgono lavori che ledono la loro dignità di essere umani?
In occasione del Primo Maggio, Osservatorio Diritti ha deciso di dare uno sguardo a come vengono difesi, tutelati o violati i diritti dei lavoratori in Italia.
Quella che segue non è una classifica, bensì un punto della situazione partendo dai diritti che sono tutelati dalla Costituzione e, in generale, dalle nostre leggi.
Niente parità di genere: donne vittime del gender gap
Con l’espressione «gender gap» si intendono tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche, sociali e di istruzione, nonché di accesso al lavoro, e che riguardano il genere sessuale di appartenenza.
Di solito, quando si parla di gender gap, a essere penalizzate sono maggiormente le donne. Nonostante l’articolo 37 della Costituzione accordi alle lavoratrici gli stessi diritti dei lavoratori, in Italia c’è ancora molto da fare.
A dirlo è l’ultimo Global Gender Gap del 2017, il rapporto che annualmente è pubblicato dal World Economic Forum e che analizza la situazione Paese per Paese. L’Italia si trova all’82° posto, molto sotto rispetto a Ruanda (4° posto) e Filippine (10°).
Pay gender gap: le donne pagate meno degli uomini
In particolare, quello che emerge è la disparità dal punto di vista del trattamento economico, che, per usare un’altra espressione inglese, viene definito «pay gender gap». Una discriminazione che almeno sulla carta è abolita dal Codice delle Pari Opportunità, art. 28, che parla di stessa retribuzione del lavoratore quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore.
Essere donne in Italia, invece, vuol dire quasi automaticamente essere pagate di meno. Così come è alta la quota di lavoro quotidiano non pagato che raggiunge il 61,5% per le donne italiane, contro il 22,9% per gli uomini. Su questo influisce il fatto che il lavoro domestico, sulle spalle quasi sempre delle donne, non è retribuito.
Sempre secondo il Global Gender Gap, l’Italia è al 103° posto per la disparità nel reddito, considerando anche ogni giorno lavorato: le donne superano gli uomini, 512 minuti contro i 453 di un collega.
C’è da dire, però, che stando agli ultimi dati Eurostat del 2017, il divario tra gli stipendi tra i due generi è inferiore rispetto ad altri paesi europei: si attesa sul 6,1 per cento. Una percentuale che si basa sulla paga oraria e non tiene conto del fatto che tra le donne è molto più diffuso il part time (non sempre frutto di libera scelta). Pertanto, se si va a considerare il salario mensile o annuale, il divario si allarga.
Inoltre, l’Eurostat ha tenuto in considerazione solo le donne che lavorano, ma in Italia ce ne sono tante con un basso titolo di studio non ancora (o mai) entrate nel mercato del lavoro.
Il 44% delle donne in Italia è inattivo
Secondo gli gli ultimi dati Istat sulla disoccupazione, l’occupazione femminile è leggermente migliorata. Tuttavia tra i 15 e i 64 anni è occupato il 66,9% degli uomini, contro il 49,2 per cento delle donne. E quelle inattive, come detto, sono il 44%, contro il 25,3% degli uomini.
Le politiche dell’Italia per favorire la parità di genere
Tornando ai dati del World Economic Forum (Wef), l’Italia è scesa in classifica negli anni anche a causa di poche politiche attive per risolvere il gender gap, cosa che invece non avviene in molto altri Paesi.
L’Islanda, per esempio, al primo posto della graduatoria del Wef, a inizio 2018 ha stabilito che tutte le aziende sopra i 25 dipendenti devono dimostrare che donne e uomini sono in assoluta parità.
Da questo punto di vista l’Italia non sarebbe così da meno, almeno in punta di legge: il Codice delle Pari Opportunità, all’art. 46, modificato nel 2010, prevede che sia le aziende pubbliche sia quelle private oltre 100 dipendenti, devono fornire ogni 2 anni un rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile.
Altro che festa del Lavoro: se sei madre, niente carriera
La discriminazione non riguarda solo lo stipendio, ma anche la possibilità di diventare madri.
Se è vero che i contratti in bianco – che prevedono che una donna firmi le proprie dimissioni al momento dell’assunzione in modo che siano «pronte» non appena resta incinta – sono meno frequenti, anche per via del Jobs Act, chi sceglie di diventare madre non ha vita facile.
A tutti i livelli: da quando vince una borsa di studio fino a quando ha un contratto indeterminato in tasca. Nel primo caso, Osservatorio Diritti ha già scoperto come entrare a far parte della Marie Curie-Skłodowska Actions (Mcsa) e ricevere il finanziamento europeo del programma Horizon 2020, preveda sì molti vantaggi, ma restare incinte può voler dire la sospensione della borsa.
La discriminazione inizia con i colloqui di lavoro
Per non parlare del trattamento differenziato, in sede di colloquio, tra donne e uomini: cercare lavoro in età fertile può comportare sentirsi chiedere: «Lei ha intenzione di metter su famiglia?». Una domanda che viola apertamente l’art.27 del Codice delle Pari Opportunità.
E qualora si riesca comunque a ottenere un lavoro, il diritto a essere madri e donne in carriera non è sempre difendibile.
Maternità e lavoro: 30 mila le donne che rinunciano
Gli ultimi dati dell’Ispettorato del Lavoro (pubblicati nel 2017) parlano di quasi 30 mila donne che si dimettono perché non riescono a conciliare l’avere un figlio (sotto i 3 anni) con il lavoro. I motivi? L’assenza di familiari che possano dare una mano, la non accettazione all’asilo nido e, in ultimo, anche i costi per il bambino. Certo è che, tra i 2 genitori, è sempre più la donna a rinunciare.
Welfare inesistente per le madri braccianti agricole
Non va meglio per chi lavora fuori dagli uffici. Anche le braccianti agricole madri non vedono tutelati i loro diritti. Succede, per esempio in Puglia, dove ActionAid ha denunciato la situazione di un lavoro mal pagato, precario e che soprattutto non si concilia con la famiglia. Donne che si alzano prestissimo e si ritrovano a dover combattere con un welfare inesistente.
Per non parlare poi delle condizioni di salute in cui versano. Anche il Wef ci ha «bacchettato» per questo: l’Italia ha subito un peggioramento sul versante «salute e sopravvivenza»: siamo al 123° posto.
Molestie sul lavoro: le principali vittime sono donne
E ancora sono molte le storie di sessismo sul luogo di lavoro e di molestie. Un report ad hoc è stato redatto dall’Istat e diffuso nel febbraio scorso.
Nella ricerca, che riguarda il 2015 e 2016, emerge che 1 milione e 404 mila donne hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul luogo di lavoro. Sempre stando ai ricatti, pare che nel corso della loro vita 1 milione e 173 mila di donne ne sia stato vittima prima di essere assunto, mantenere il posto o fare carriera. Molestie o ricatti che riguardano, sempre stando ai dati Istat, le donne più giovani e più istruite.
Un dato confortante, però, c’è: rispetto agli anni passati, questi episodi sono in diminuzione. Anche se, nella maggiorparte dei casi, si concludono grazie alla donna che decide di cambiare volontariamente lavoro o rinunciare alla carriera.
Mobbing: la situazione in Italia
Sempre restando in tema molestie, ma non smaccatamente sessuali e non solo di genere, il mondo del lavoro lotta contro il mobbing e il bossing.
Due parole inglesi per definire due aspetti del problema: il primo indica i comportamenti aggressivi sia dal punto di vista verbale sia fisico eseguiti da una o più persone con fine persecutorio e con l’obiettivo di svilire così tanto una persona da farla allontanare dal gruppo o dal luogo di lavoro. Il mobbing può avvenire anche tra i colleghi e qualora sia il capo a perseguitare qualcuno si parla di bossing.
In Italia non ci sono dati univoci sul problema: vuoi perché una volta a occuparsene era l’Ispels (Istituto superiore per la prevenzione e sicurezza sul lavoro) e vuoi perché non tutti denunciano la situazione di mobbing.
Come ha detto Ferdinando Cecchini, autore del libro Dal mobbing al disagio allo stress correlati al lavoro, in molti soffrono e subiscono in silenzio, ma questo non vuol dire che la situazione non sia seria o al limite della sopportazione.
Gli sportelli anti-mobbing della Uil, nel 2016, hanno ricevuto 1.000 denunce in tutta Italia, il 40% uomini, il 57% donne e il 3% transessuali.
Mentre, secondo l’Osservatorio Nazionale Mobbing in Italia dal 2013 al 2015 sono state licenziate o costrette a dimettersi 800 mila donne, di cui 350 mila sono quelle discriminate per via della maternità o per richieste che tendevano ad armonizzare il lavoro con le esigenze familiari.
La mancata legge sul mobbing
Non esiste una vera legislazione contro il mobbing, anche se il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, d.lgs 81/2000, ha introdotto il tema della valutazione del rischio per la sicurezza e salute dei lavoratori, comprendendo anche il rischio di stress da lavoro correlato. Pertanto, nel Documento di valutazione dei rischi che le aziende devono presentare, tale situazione andrebbe comunque analizzata o quantomeno segnalata.
Inoltre, chi è vittima di mobbing, può provare a chiedere il risarcimento danni, purché abbia modo di testimoniarlo. Come è successo a una professoressa del liceo Pedrotti di Bari mobbizzata dal preside (risarcimento di 10 mila euro più spese legali) o a una dipendente di un’azienda tessile di Olbiate (Lecco), che ha ottenuto un risarcimento di 150 mila euro ai danni dell’ex datore di lavoro.
Primo maggio dedicato alla sicurezza sul lavoro
La giornata mondiale per la Salute e Sicurezza sul lavoro si è svolta il 28 aprile e alla sicurezza e alle morti bianche sul lavoro i sindacati italiani dedicheranno il Primo Maggio. Segno che, in tutto il mondo, lavorare in sicurezza non è una certezza.
A tutelare i lavoratori italiani, c’è il Testo Unico, ma i dati dicono che di lavoro si muore ancora. Secondo il bollettino del I Trimestre 2018 diffuso dall’Inail, tra gennaio e dicembre 2017 ci sono state oltre 635 mila denunce di infortunio, numero sì più basso rispetto al 2016, ma se si va a vedere le denunce per infortunio con esito mortale sono 1.029, ovvero l’1,08% in più rispetto all’anno precedente.
La fascia d’età più colpita ha tra i 55 e i 64 anni, le regioni più coinvolte sono Lombardia ed Emilia Romagna, con 92 e 81 decessi (dati infortuni mortali in occasione di lavoro). Il Veneto si posiziona al terzo posto con 61 decessi, seguito da Piemonte e Lazio (60).
Discriminazioni per razza, età, religione
Se ne parla sempre poco, eppure tra i diritti che non vengono tutelati in Italia c’è quello ad avere un pari trattamento quando si appartiene a un’altra razza, si professa una religione diversa o magari si ha un’età diversa.
Stando alla ricerca WorkForce Europe 2018 condotta da Adp, società internazionale attiva nell’human capital management e che ha coinvolto 1.300 lavoratori in Italia, nel nostro Paese le discriminazioni sul lavoro riguardano il 37,8% degli uomini e il 47,4% delle donne.
Tra i motivi principali c’è l’età: il 19,3% dei lavoratori over 55 si sente discriminato per il fatto di esserlo. Il 22% dei lavoratori tra i 45 e 54 vede l’età come motivazione di ostacolo alla carriera e oltre a quelle di genere, spuntano discriminazioni per background (9,7%), istruzione (6,8%), religione (4,4%), nazionalità (3,4%) aspetto fisico (4,4%).
Quanto alla nostra legislazione, l’articolo 3 della Costituzione parla di pari dignità sociale e di cittadini uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, condizioni personali e sociali, nonché colore della pelle e orientamento sessuale, età, opinioni personali ecc. Così come tutto questo è ribadito anche dal decreto legislativo 216/2003 con le modifiche apportate nel 2008.
Il Jobs Act e il reintegro per casi di discriminazione
Tra i pochi casi di reintegro previsti dal Jobs Act c’è quello in cui ci sia stato un licenziamento per motivi politici, religiosi, sindacali, razziali, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basati sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
In Italia, la Corte d’Appello di Milano qualche anno fa ha dato ragione a una ragazza di Melegnano che non venne assunta a causa del velo.
Ma la Corte di Giustizia Europea nel 2017 ha detto che, se un’azienda vieta di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, non si tratta di discriminazione perché c’è una chiara «volontà del datore di lavoro di adottare una politica di neutralità è del tutto legittima e non viola il principio di parità del trattamento».
Lavoro e disabilità: quanto c’è da fare ancora
Spesso vittime di discriminazioni sono le persone disabili per le quali in Italia esistono diverse leggi: la 104/92 che tutela sia le persone con handicap sia i loro familiari, la Legge 68/99 che ha introdotto il collocamento mirato e le quote di assunzione riservate ai disabili e obbligatorie per le aziende, gli incentivi per chi assume e il Jobs Act che ha introdotto alcune modifiche. Tra queste, l’obbligo per le aziende con più di 15 dipendenti di avere dipendenti disabili in base alle quote previste per legge e non solo in caso di nuove assunzioni.
Sono poi aumentati gli incentivi per chi assume fino a 5 anni persone con disabilità intellettiva e psichica.
Secondo una ricerca condotta da Daniela Pavoncello per Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), sussistono 4 categorie di criticità:
- i limiti dell’azienda stessa, che spesso non conosce le patologie, non ha personale preparato ad accogliere chi ha un disagio mentale né ha reti di sostegno;
- l’atteggiamento verso il disabile sul lavoro: si va o verso la compassione o l’eccessivo controllo senza che sia valorizzato in modo adeguato;
- le motivazioni dell’assunzione che possono essere: pietismo, obbligo di legge o solidarietà;
- i «limiti auto-percepiti»: come l’ansia da prestazione, l’incapacità, la scarsa autostima, le aspettative grandiose o irrealistiche, i sentimenti di solitudine e abbandono, la destabilizzazione di fronte alla novità del lavoro.
Per non parlare poi del fatto che a volte sono le stesse famiglie a non sostenere questa strada per paura di far soffrire la persona disabile o le cure stesse che spesso non si conciliano con la tipologia di lavoro.
Caporalato: una spina nel fianco per l’Italia
Altra spina nel fianco per i diritti dei lavoratori in Italia è il caporalato, in vari settori: agricoltura, così come macellazione carni.
Osservatorio Diritti si è occupato spesso di un modus operandi per cui le aziende appaltano il proprio lavoro a cooperative cosiddette “spurie” (false) che sfruttano i lavoratori facendoli lavorare fino a 14 ore al giorno, 7 giorni su 7, ledendo quello che è il sacrosanto diritto al riposo, ma non solo.
Il lavoro non è remunerato in maniera equa: si arriva a una paga massima di 25/30 euro al giorno. E oltre al danno la beffa: spesso molti di questi lavoratori non arrivano ad avere le 50 giornate minime che servono per ottenere la disoccupazione, così come non si vedono pagati neanche i contributi.
Caporalato da cui non è escluso neanche il settore della moda, in cui spesso si rischia anche la vita: nell’agosto del 2017 due persone morirono nell’incendio di un laboratorio abusivo a Prato.
Primo maggio contro lo sfruttamento giovanile
«C’è crisi». E con questa scusa, spesso si fa passare per volontariato quello che è una vera e propria occupazione. Ed è bene ricordarlo durante questa Festa del Lavoro. Come quel che è successo a 22 ragazzi di Roma che hanno lavorato per anni alla Biblioteca Nazionale, con turni, sostituendo il personale carente. Un gruppo di giovani che per ottenere almeno il loro rimborso di 400 euro dovevano raccogliere degli scontrini. Da qui il loro appellativo: «scontrinisti».
Questo fino a che la situazione di sfruttamento non è diventata nota in seguito alle denunce di otto di loro. A quel punto, anziché offrire un vero contratto, la Avaca (Associazione volontari attività culturali e ambientali) che li gestiva, ha deciso di interrompere del tutto la collaborazione.
Allo stato attuale, gli scontrinisti, che nel frattempo hanno presentato ricorso, sono in attesa di un riconoscimento del loro operato e che venga loro data la possibilità di proseguire quello che è un lavoro a tutti gli effetti. Perché quando ci sono turni, orari da rispettare, mansioni ben precise da espletare, non c’è nessun altro modo per definirlo.