Sud Sudan: nuove sanzioni Usa, ma la guerra civile continua
Le nuove sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti contro il Sud Sudan prendono di mira il settore petrolifero, su cui si poggia la quasi totalità dell’export nazionale. Una mossa che mira a sbloccare la situazione togliendo risorse importanti alla guerra civile in atto da più di 4 anni
Quindici soggetti, tra enti governativi e compagnie che operano nel settore petrolifero in Sud Sudan, sono stati sanzionati dal Dipartimento del Commercio di Washington, che ha stabilito che per concludere affari con società statunitensi d’ora in poi dovranno richiedere licenze speciali.
La lista nera Usa del petrolio di Giuba
Nella black list sono inclusi il ministero delle Miniere e il ministero del Petrolio sud sudanese, oltre alla compagnia petrolifera statale Nile Petroleum e le sue consociate. L’elenco comprende anche il consorzio Dar Petroleum Operating Company, partecipato per oltre l’80% dalla China National Petroleum Corporation e dalla malese Petronas, le due più grandi compagnie petrolifere che operano in Sud Sudan.
La restrizione commerciale nei confronti di Dar Petroleum è particolarmente rilevante perché attualmente è l’unico consorzio per le esplorazioni di petrolio e gas, che ancora assicura una produzione significativa di greggio, stimata sui circa 110 mila barili al giorno.
Le sanzioni riguardano anche altre società che controllano i giacimenti petroliferi del paese come Nyakek and Sons, Greater Pioneer Operating, Juba Petrotech Technical Services, Nigeria’s Oranto Petroleum e Sudd Petroleum Operating.
Una mossa per tagliare armi e soldi alla guerra civile
L’anno scorso, il governo di Giuba aveva dichiarato di voler raddoppiare la produzione di petrolio a 290 mila barili al giorno nel corso del 2018. Del resto, non si può dimenticare che il Sud Sudan è il paese più dipendente dalla produzione di greggio del mondo, che secondo la Banca Mondiale rappresenta circa il 60% del prodotto interno lordo e la quasi totalità dell’export nazionale.
L’ennesima stretta di Washington nei confronti di Giuba punta così a ridurre le entrate provenienti dal petrolio, che secondo il Dipartimento di Stato americano sarebbero utilizzate dal governo per acquistare armi e finanziare le milizie irregolari attive nel paese.
Le notizie dal Sud Sudan confermano le accuse Usa
Le accuse sembrano essere fondate: basti considerare che solo nel 2014 il governo sud sudanese ha speso un miliardo di dollari in armamenti e ipotecato pozzi di petrolio, che non ha ancora aperto. In pratica, il regime sta svendendo il paese per avere armi e schiacciare la ribellione, dimostrando una totale noncuranza per il futuro della popolazione stremata dal conflitto. Senza contare che nei suoi primi anni di indipendenza Giuba non ha fatto funzionare i suoi fragili apparati statali per assistere la popolazione con gli introiti petroliferi.
Per sbloccare la situazione si punta sull’embargo
Nell’intento di aumentare la pressione sul presidente Salva Kiir Mayardit per porre fine al conflitto, a inizio febbraio gli Stati Uniti avevano già adottato restrizioni contro le esportazioni di armi e di servizi di difesa in Sud Sudan. La decisione aveva fatto seguito alle ripetute violenze registrate contro civili e operatori umanitari nella nazione africana.
Nel tentativo di rafforzare l’embargo, gli Usa ne hanno chiesto l’applicazione anche ai paesi confinanti con il Sud Sudan. Inoltre, l’amministrazione Trump sta esercitando pressione sul Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per imporre un blocco che coinvolga tutta la comunità internazionale, come proposto in precedenza dall’ex presidente americano, Barack Obama.
Un ribelle delle milizie antigovernative del Sud Sudan armato di fucile d’assalto Heckler & Koch G3. Foto Steve Evans (via Flickr)
Nel settembre 2017, inoltre, gli Usa avevano imposto provvedimenti nei confronti di tre stretti collaboratori del presidente Salva Kiir: il generale Malek Reuben Riak Rengu, vice capo di stato maggiore dell’esercito e responsabile delle commesse militari; il ministro dell’Informazione Michael Makuei Lueth; il generale Paul Malong Awan, ex capo dello staff del Movimento di liberazione del popolo del Sudan, il partito politico separatista fondato nel 1983 per l’indipendenza del Sudan del Sud.
I tre alti funzionari di governo si sarebbero macchiati di numerosi episodi di corruzione all’interno di un sistema di governo, che gli Stati Uniti hanno definito una cleptocrazia. Per questo, il Dipartimento del Tesoro Usa ha imposto misure restrittive anche nei confronti di tre società controllate dall’ex vicepresidente Riek Machar Teny Dhurgon, a capo dei ribelli che combattono contro le forze governative e attualmente agli arresti domiciliari in Sudafrica.
Le mosse dell’Unione africana per fermare la guerra
Nuove minacce di sanzioni sono giunte anche dal presidente della Commissione dell’Unione africana, Mousa Faki Mahamat, che in occasione dell’ultimo vertice dell’organismo di Addis Abeba ha dichiarato di «essere pronto ad applicare severe misure nei confronti dei leader del paese accusati di far deragliare il processo di pace». Tuttavia, è vero anche che la Commissione dell’Ua continua a rinviare l’istituzione di una Corte ibrida per giudicare le gravi violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra commessi durante i quasi quattro anni e mezzo di conflitto.
Da parte sua, il governo di Giuba ha ripetutamente attaccato l’Unione africana e gli Stati Uniti per aver chiesto o comminato sanzioni nei suoi confronti. Alla fine di gennaio, il portavoce del ministero degli Esteri sud sudanese, Mawien Makol, ha affermato che «minacciare misure restrittive non può portare la pace nel paese, mentre è necessario l’incoraggiamento da parte delle autorità regionali, dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) e dei membri della comunità internazionale».
Nel frattempo, la popolazione tra carestia e guerra civile è allo stremo, mentre gli sforzi diplomatici per risolvere uno dei più sanguinosi conflitti e una delle peggiori crisi umanitarie dell’Africa, finora sono valsi a ben poco.
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