Guatemala: morte di Rios Montt, dittatore del genocidio degli indigeni

Efrain Rios Montt è morto il giorno di Pasqua senza aver scontato il carcere a cui era stato condannato per essere il responsabile del genocidio avvenuto sotto la sua dittatura negli anni Ottanta. Una vera e propria strage di indigeni. Una ferita che il Paese dell'America Latina si porta dentro ancora oggi

Domenica 1° aprile, nel giorno di Pasqua, è morto a 91 anni in Guatemala Efrain Rios Montt, genocida. Cinque anni fa, infatti, il vecchio militare, che in seguito a un colpo di Stato aveva preso il potere per diciotto mesi tra il 1982 e il 1983 nel piccolo Paese del Centro America, fu condannato a 80 anni di carcere. Condanna che, però, non ha mai scontato.

La Corte Costituzionale aveva revocato la sentenza che lo riconosceva, tra l’altro, responsabile della morte di almeno 1.771 indigeni di etnia Maya Ixil, durante numerose operazioni militari concentrate nel dipartimento del Quiché, nel nord del Guatemala.

Oggi, per gli stessi delitti, è in corso un nuovo processo nei confronti dell’ex capo dell’intelligence di Rios Montt, José Mauricio Rodríguez Sánchez. Mentre il Centro para la Acción Legal en Derechos Humanos ha promosso un giudizio contro tre dei giudici costituzionali che avevano “salvato” Rios Montt dalla condanna, come segnalato nell’ultimo rapporto dell’Ufficio in Guatemala dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani reso pubblico lo scorso febbraio.

Rios Mott, il dittatore impunito del Guatemala

In attesa dell’eventuale revoca della decisione della Corte Costituzionale, il quotidiano spagnolo El Pais ha dato notizia della morte di Rios Montt titolando l’articolo Muere impune (Muore impunito).

Non ha pagato per aver scatenato quella che definì la politica della tierra arrasada, vocabolo che si traduce con mettere a ferro e fuoco, o anche con annientare, annichilire, distruggere. Nel 1982, quando l’ex generale divenne dittatore, il Guatemala viveva da oltre vent’anni una guerra civile e si decise che le comunità indigene sospettate di appoggiare la guerriglia avrebbero dovuto essere, semplicemente, cancellate dalla mappa geografica.

Dati del genocidio: 200 mila tra morti e desaparecidos

Solo dopo la firma degli Accordi di Pace, che arrivò a pochi giorni dalla fine del 1996, il mondo poté comprendere ciò che era accaduto. Fu grazie il lavoro della Commissione per il chiarimento storico delle Nazioni Unite, con il rapporto “Memorias del Silencio“, che offrì al mondo dati imbarazzanti: oltre 200 mila tra morti e desaparecidos, l’83,3% delle vittime appartenenti a uno dei gruppi indigeni di etnia Maya; il 93% dei casi di violenza e violazioni dei diritti umani era stato di responsabilità dello Stato, che comprende l’esercito, ma anche i gruppi paramilitari armati durante il periodo in cui Efrain Rios Montt fu capo di Stato.

669 massacri riconosciuti dall’Onu

Le Nazioni Unite, complessivamente, registrarono 669 casi di massacri da parte delle forze repressive dello Stato. Quasi la metà, 344, nel solo dipartimento del Quiché, quello costato la condanna di genocidio a Rios Montt.

Torture, esecuzioni extra giudiziarie e casi di sparizione forzata toccano un picco proprio nel biennio in cui il generale, che si è formato come militare alla Scuola delle Americhe, come molti altri futuri dittatori latinoamericani, guida il Paese: almeno 10 mila i guatemaltechi giustiziati in quel biennio e 448 le comunità “cancellate”, annichilite.

Nella capitale si manifesta e si ricorda le fosse comuni

Oltre vent’anni dopo la fine del conflitto armato interno, quella violenza è ancora un dolore collettivo, vivo e presente nella società guatemalteca.

Dopo la morte di Rios Montt, H.I.J.O.S. Guatemala ha convocato una manifestazione di fronte al Palazzo della Cultura della capitale, Città del Guatemala, per diffondere un messaggio chiaro: «Ríos Montt genocida, i popoli non dimenticano né perdonano».

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Foto: account Twitter di Hijos

In un comunicato stampa la stessa organizzazione ricorda come il dittatore «è morto nella sua casa, ed è stato sepolto dalla sua famiglia, mentre migliaia di persone che vivevano nella comunità che furono sterminate restano sepolte in cimiteri clandestini nei pressi o all’interno delle basi militari, nonostate la continua ricerca da parte dei familiari». Il riferimento è ai limiti di quella che la Commissione per il chiarimento storico aveva definito “politica delle esumazioni“, il cui obiettivo – nell’ambito della riparazione dei diritti umani violati durante il conflitto armato – avrebbe dovuto essere la ricerca di tutti i corpi seppelliti nelle fosse comuni.

Il nono Stato più pericoloso al mondo per attivisti

Le Nazioni Unite e organizzazioni non governative come Amnesty International e Human Rights Watch sottolineano anche nei rapporti più recenti come il governo del Guatemala non abbia voluto in alcun modo chiudere i conti con il suo passato (tra il 2012 e il 2015 è stato presidente del Paese Otto Fernando Pérez Molina, un altro militare formato alla School of Americas). La parola che torna di più è “impunità“.

Amnesty e Front Line Defenders puntano l’accento anche sui rischi che corre, nel Paese, chi difende i diritti umani e l’ambiente. Secondo il rapporto 2017 di Global Witness, invece, il Guatemala è al 9° posto nella classifica dei Paesi più pericolosi per gli attivisti.

Disuguaglianza: il Guatemala di oggi “sprofonda”

Gli indicatori socio economici del Paese, che oggi ha circa 16 milioni di abitanti, ma ne aveva meno di 8 quando Rios Montt prese il potere, nel 1982, fanno del Guatemala una delle realtà più disastrate dell’America Latina: «Il 60% della popolazione vive in povertà (percentuale che arriva al 76,1% nelle zone rurali, al 79,2% tra i popoli indigeni, al 69,2% tra i giovani di meno di 15 anni); approssimatamente, il 46,55 dei bambini al di sotto dei cinque anni soffre malnutrizione cronica (il 61,2% nel caso dei bambini indigeni)», scrive l’Ufficio dell’Alto commissario Onu per i diritti umani nel rapporto redatto a febbraio 2018. Anche per questo, come ricorda Amnesty, migliaia di persone continuano a lasciare il Paese ogni anno per sfuggire «gli alti livelli di disuguaglianza e la violenza».

Cade così nel vuoto l’appello di monsignor Juan Gerardi, vescovo del Quiché e poi a Città del Guatemala, che per conto della Chiesa guatemalteca curò un rapporto sulla guerra civile, “Guatemala: Mai più“. Venne presentaro il 25 aprile di vent’anni fa. E il giorno dopo, il 26 aprile 1998, Juan Gerardi era un uomo morto. Credeva nell’importanza del «recupero della memoria storica», e lottava per realizzare una vera pacificazione nel Paese. Contro la volontà dell’esercito.

Guatemala: la cartina del Paese

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Immagine: Google Maps

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