Perché i migranti vengono in Italia? Storia del giovane Ismail
Si parla spesso di immigrazione, migranti, profughi, chiedendosi perché scappino dai loro paesi verso l'Italia, senza però interpellarli direttamente. Osservatorio Diritti ha deciso di farlo. Dedicando un intero articolo al racconto di un giovane maliano
Porta casualmente il cognome di un calciatore famoso ed è stato salvato proprio da una partita di calcio. «Sì, vero, senza quella partita, probabilmente sarei morto in carcere a Sebha. E pensare che il calcio nemmeno mi appassiona così tanto». Il diciassette Ismail (trattandosi di minore, il nome non è il suo, ma la storia sì) parla felpato, come il suo passo nel raggiungere il salottino del centro rogazionisti di Cristo Re di Messina, un balcone sullo Stretto che sembra fatto apposta per tenere lontane le cose brutte. Ismail abbassa lo sguardo e alza un dito in mezzo alla cresta, quasi a voler riavvitare i riccioli scuri. E riavvitare i ricordi di quei momenti cruciali. Scuri, pure quelli.
Libia, nel carcere dove «picchiavano e uccidevano»
«Eravamo in 1.200 nel carcere, in mezzo alla Libia, a Sebha. Picchiavano e uccidevano ogni giorno. A dicembre 2015 già ne avevo visti morire sei o sette. Per fortuna ancora a me non mi avevano toccato. Avevo quindici anni. Per uscire da lì avremmo dovuto negoziare un riscatto e farci arrivare i soldi dalla famiglia».
Ma Ismail non aveva più soldi. Li aveva finiti nella traversata nel deserto. E nemmeno la mamma in Mali. Non gli restava che evadere, perché presto la violenza l’avrebbe raggiunto.
Una partita di calcio per scappare dall’inferno
«Uno dei carcerieri, mentre ero in disparte, mi chiese se sapevo giocare a pallone. Mi disse che mi avrebbe portato con lui a partecipare a una gara e poi riportato in prigione. Capii che era l’unica occasione per uscire da lì. Lo capì anche lui, però, perché mi disse che se lo stavo prendendo in giro, se non avessi saputo giocare bene, mi avrebbe sparato alle gambe».
Il “calciatore” Ismail salì a bordo e finalmente lasciò il carcere per un campo. La partita era dura, ma lui si diede da fare. Poi la “partita”, la sua, prese una piega decisiva, come se alla sua vita fosse stato assegnato un improvviso rigore.
«Ci fu una pausa e loro si allontanarono a fumare. Non erano distanti, però non avevano armi, quindi, scappando subito e correndo veloce forse avrei potuto farcela».
Ismail scappò. Più veloce che poteva. In mezzo a una città sconosciuta. Senza meta, solo cercando di mettere distanza tra lui e il campo. Il timore di sentire da un momento all’altro il peso della pallottole addosso lo rendeva ancora più veloce. Ma per fortuna addosso arrivò solo l’eco del vento del Sahara.
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L’infanzia in Mali, la guerra e la fuga verso il Niger
Ismail stavolta gira la testa, dal lato opposto, indietro. Ed anche il suo racconto torna indietro. A prima che le porte dell’inferno gli si spalancassero davanti. Per capire anche lui, raccontandolo, come fosse stato possibile finirci dentro.
Il racconto va all’infanzia a Bamako, capitale del Mali, dove viveva con la madre separata, un’insegnante di francese. Sulla loro serena quotidianità piombò la guerra. Gli attentati che si fecero frequenti, poi quotidiani. Il governo chiuse le scuole. La mamma restò senza lavoro. La situazione si fece in poco tempo disperata. Era l’anticamera dell’inferno, quella. Ma lui non lo sapeva ancora.
«Pensavo sarebbe bastato andarsene un po’ a cercar lavoro fuori, magari in Libia. Per questo comprai quel biglietto per Niamey, capitale del Niger, a 1300 chilometri da casa».
Giunto ragazzino in Niger, Ismail, crebbe di colpo. Imparò come si dorme in stazione e come si evitano i pestaggi quotidiani. Ragazzi, bambini, uomini, in quella confusione non facevano più alcuna differenza. Erano tutti bersagli e tutto ciò che girava attorno poteva essere una minaccia. «Trovai però una signora che mi aiutò. Mi fece lavorare e mi pagai il posto su un fuoristrada per la Libia».
Migranti: la grande traversata del Sahara
«Eravamo in 25 su una Toyota, per due settimane nel deserto. Mangiavano a giorni alterni senza condividere l’acqua perché ci era permesso portarne solo un bidoncino per non appesantire la macchina».
Era l’inferno che si materializzava. «Sai, alcuni sono morti di sete. Potevamo aiutarli pensi? Il primo a morire però fu perché cadde dall’auto. Esortammo l’autista a fermarsi, ma quello non ci volle sentire. Io, veramente, da terra non lo vidi più muoversi, credo fosse morto appena caduto. Lo spero. Non posso pensare che fosse ancora vivo e sia rimasto in mezzo al deserto. Ma glielo abbiamo detto all’autista di fermarsi, davvero, non è colpa nostra».
Il racconto si fa secco, come quella sabbia del Sahara. Duro, come gli eventi. «Alcuni di loro, morti dopo, sono stati seppelliti, però: si facevano delle buche con le mani e si mettevano dentro la sabbia. Poi a Dirkou, in Niger, ci siamo fermati per cercar cibo e chi non è tornato in tempo è rimasto lì. Eravamo partiti in 25 siamo arrivati a Sebha in 18. Speravamo nella libertà e abbiamo trovato un carcere. Senza aver fatto nulla di male».
Dopo tre mesi di detenzione, Ismail, grazie a quella partita, si salvò. Al termine della corsa per le strade di Sebha trovò un ragazzo che lo prese a lavorare. Accumulò 600 dinari e ad aprile raggiunse Tripoli. Lì dove l’Italia sembra vicina.
Il lavoro a Tripoli per pagare il viaggio verso l’Italia
Ma Ismail, 16enne, si ritrovò ancora una volta solo, senza meta, nel cuore di una città pericolosa e ostile. «Si avvicinò uno con la lunga barba e mi disse che se volevo andare in Italia mi ci mandava ad agosto, ma prima avrei dovuto lavorare per lui. Acconsentì. Però dalla paga si tratteneva pure vitto e alloggio e così, invece di agosto, dovetti lavorare fino a dicembre».
«Quando mi lamentavo, mi minacciava con la pistola. Il 25 dicembre mi disse che due giorni dopo ci sarebbe stato un viaggio in barca per l’Italia. Si tenne i soldi del mio lavoro e io andai in spiaggia».
Erano in 123 per quel viaggio. Avevano assicurato loro che sarebbero partiti a minuti, ma non c’erano barche, solo la spiaggia. Vuota. E il mare. Immenso.
123 profughi stipati a forza su un gommone
«Su una macchina portarono un gommone che iniziarono a gonfiare lì davanti a nostri occhi allibiti. Ebbi paura. Dissi che non sarei mai salito su quel piccolo gommone e che eravamo tanti, che ci volevano più barche e più grandi per portarci tutti. Uno di loro iniziò a schiaffeggiarmi. Mi puntò il fucile contro: “O sali, o ti sparo!”. “se è così, salgo!”. Qualcuno di noi iniziò a guidare il barcone in qualche modo».
Il Mediterraneo, il rischio di morire, lo sbarco in Sicilia
Sparirono così nel Mediterraneo. Senza vedere altro che acqua e cielo. E dopo 12 ore anche un delfino. Nessuno di loro aveva mai visto un delfino. «Era grandissimo, pensammo tutti fosse pericoloso, perciò molti iniziarono a muoversi in modo scomposto e finimmo per bucare il gommone. Cominciò a entrare acqua, toglievamo i vestiti per tentare di strizzarla via. A quel punto ero certo che saremmo morti».
Ma la conclusione, fortunatamente, non fu quella. «Notai i droni sulla nostra testa e poi la nave italiana. Fu il momento più bello della mia vita».
L’arrivo in Italia: da Catania a Messina
L’inferno liquefatto nel Mediterraneo, Ismail se lo lasciò dietro. E, in parte, dentro. Sbarcò a Catania il 29 dicembre 2016. Chiese subito un dizionario italiano-francese, voleva imparare la lingua e Rita, un’educatrice, glielo regalò.
Poi il trasferimento a Messina dai rogazionisti di Padre Ande, dove i ragazzi imparano a cavarsela da soli in un ambiente sereno, studiando e lavorando con gli imprenditori coinvolti dalla vivace struttura. «Iniziai a trascrivere in italiano ogni cosa che pensavo in francese e andai subito a scuola».
Appoggia le mani sul tavolo, Ismail, sono più rilassate. Lo sguardo si fa sereno. L’inferno è un ricordo, un brutto ricordo, ormai sgonfio come un pallone da calcio. Abbozza un sorriso. È orgoglio: «A giugno ho superato gli esami di terza media col voto più alto. Non male per uno che fino a sei mesi prima non aveva mai parlato italiano, non credi? E faccio pure teatro. Siamo stati pure a Roma a recitare un lavoro scritto da uno che qui dicono sia famoso, Pasolini». Un altro che di inferni se ne intendeva.
Ismail, come tanti immigrati, non tornerà in Africa
Ora Ismail frequenta l’istituto tecnico per il turismo. Parla francese, inglese, italiano, arabo e mandinga («pure il messinese sto imparando, con la mia ragazza, già lo parlo meglio dell’inglese») e… sa giocare a pallone. Sorride. L’inferno non c’è più. Lo ha lasciato tra le sabbiose dune del deserto. «Non ci voglio più tornare a vivere in Africa, solo a trovare mia mamma».
Malgrado l’età, ha le sue idee pure sulla sua terra: «In Africa non ci si dovrebbe dividere. Se non siamo uniti continueranno a calpestarci, farci fare le guerra e scappare». E non sempre c’è un pallone da calcio a salvarli.
Ismail smette di parlare e nel silenzio si infilano voci di ragazzini che nei campetti di Cristo Re giocano spensierati. Arriva un grido di esultanza. Qualcuno ha fatto gol. Ismail ci saluta e col suo passo felpato sparisce oltre il corridoio.
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