Moda e diritti umani: «Sfruttamento lavoratori è strutturale»
Intervista a Deborah Lucchetti, portavoce nazionale per l'Italia della Campagna Abiti Puliti. Che parla di una «presenza preoccupante di fenomeni estesi di lavoro illegale, informale, precario, che si annida nelle parti basse delle filiere produttive»
Negli ultimi anni ci sono stati importanti miglioramenti in difesa dei diritti umani nel tessile. Ma di strada ce n’è ancora da fare parecchia. «La situazione di sfruttamento e sofferenza per i lavoratori e le lavoratrici del settore è strutturale e globale» e «i problemi non restano confinati in alcune regioni del Pianeta». Tanto che «oggi assistiamo a fenomeni importanti di rilocalizzazione verso l’Europa, nei Paesi dell’Est in particolare, ma anche Italia» e si registra «la presenza preoccupante di fenomeni estesi di lavoro illegale, informale, precario, che si annida nelle parti basse delle filiere produttive».
A sostenerlo è Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, versione italiana della Clean Clothes Campaign, che dal 1989 fa ricerca e si batte per i diritti dei lavoratori nella filiera tessile, dialogando con governi, imprese e sindacati. Nata a Torino, ex-operaia metalmeccanica e sindacalista, Lucchetti si occupa di lavoro, diritti umani, globalizzazione e economie solidali.
L’ultimo rapporto della campagna Abiti puliti, “Guarda dove metti i piedi” (video qui sopra), riguarda le concerie in India. Il tema dei diritti dei lavoratori nel comparto tessile e moda riguarda solo il Sud del mondo?
Durante gli ultimi anni abbiamo prodotto indagini con un focus che guarda sempre di più verso l’Europa, verso di noi. In particolare gli ultimi rapporti descrivono i Paesi dell’Est-Europa e l’Italia quali snodi produttivi fondamentali per la produzione al servizio di catene di fornitura globali in cui persistono condizioni diffuse e strutturali di sfruttamento del lavoro.
Soprattutto nelle catene di sub-fornitura, che possono arrivare al lavoro a domicilio, ovunque nel mondo e anche in Italia si annidano situazioni molto problematiche di violazione dei diritti fondamentali: salari bassissimi, mancanza di sicurezza e rischi per la salute, precarietà contrattuale e paura. L’omertà e la paura a farsi intervistare che i ricercatori hanno incontrato nelle ultime inchieste in Europa è indicativa di un sistema profondamente opaco e rischioso, dove la paura di ritorsioni, di perdere il posto o il contratto con il committente (nel caso di piccoli imprenditori) rende molto difficile ottenere informazioni.
L’opinione pubblica si pone qualche domanda di fronte a eventi eccezionali come l’incendio del Rana Plaza, quando morirono 1.134 persone. In seguito a quella tragedia, avvenuta nell’aprile di 5 anni fa in Bangladesh, fu siglato un “Accordo legalmente vincolante sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi”. Qualcosa è cambiato davvero?
Dopo quella tragedia si è avviato un percorso molto complesso, ma storico e fondamentale, per mettere in sicurezza le fabbriche fornitrici di più di 200 imprese firmatarie con un impatto su più di 2 milioni di lavoratori operanti in più di 1.500 fabbriche.
Un piano di risanamento gigantesco, stando agli ultimi aggiornamenti: ci sono stati progressi generali nell’80% delle situazioni a rischio; il 100% delle riparazioni necessarie secondo gli audit iniziali sono stati realizzati in 120 fabbriche; in altre 656, sono state realizzati il 90% degli interventi necessari secondo gli audit indipendenti; in 159 fabbriche sono stati completati training formativi in materia di salute e sicurezza; sono stati risolti 208 casi di denuncia su salute e sicurezza sollevati dai lavoratori.
C’è qualche aspetto dell’Accordo, in particolare, che ha portato miglioramenti importanti?
Fra gli aspetti più importanti dell’Accordo, c’è il fatto che è vincolante per le imprese, che devono contribuire finanziariamente al risanamento delle fabbriche fornitrici. Ciò è avvenuto o sta avvenendo, in molti casi, ripristinando la responsabilità del marchio committente di contribuire alla salute e alla sicurezza dei fornitori e quindi dei lavoratori che producono per loro.
L’altro elemento su cui si è avanzato è la trasparenza, perché l’Accordo prevede la pubblicazione della lista dei fornitori coperti dal programma, la pubblicazione degli audit condotti, delle misure correttive richieste. Un livello di trasparenza senza precedenti e fondamentale per la riuscita del programma.
Quali sono i passi ancora da fare per proseguire verso un maggiore rispetto dei diritti?
Resta ancora molto da fare. Le ispezioni e il risanamento delle situazioni a rischio difficilmente sarà completato entro il 2018, perché le problematiche non possono essere ridotte alla salute e alla sicurezza. Ci sono anche la libertà di associazione sindacale e il salario.
Per questo è importante rinnovare l’Accordo per proseguire il lavoro iniziato e implementarlo. Cosa che avverrà: un nuovo Accordo è già pronto per succedere al primo nel maggio 2018 e durare fino al 2021, momento in cui il processo sarà preso in carico dal governo del Bangladesh attraverso un organismo di regolamentazione nazionale sostenuto dall’Organizzazione internazionale del lavoro.
Ad oggi 50 aziende multinazionali che si riforniscono da più di 1.200 fabbriche in Bangladesh hanno rinnovato formalmente il loro impegno, ma siamo ancora distanti dal numero necessario alla sua effettiva implementazione. Per questo stiamo contattando tutti i marchi coinvolti nel primo Accordo per convincerli a firmare anche il secondo. Sottolineo l’importanza del percorso istituzionale che speriamo porti tale meccanismo a divenire un piano di azione del governo nazionale del Bangladesh.
Con la campagna “Change your shoes” siete tornati a guardare all’Italia e all’Est Europa non solo come luoghi di consumo, ma anche di produzione. Vedete una retrocessione nel campo dei diritti? Quali sono le cause?
La situazione di sfruttamento e sofferenza per i lavoratori e le lavoratrici del settore è strutturale e globale. E naturalmente i problemi non restano confinati in alcune regioni del Pianeta, ma tornano indietro, a peggiorare il quadro di chi ha creduto di vivere nella culla dei diritti e della democrazia.
Oggi assistiamo a fenomeni importanti di rilocalizzazione, tecnicamente si chiama reshoring, verso l’Europa appunto, nei Paesi dell’Est in particolare, ma anche Italia. Il lavoro torna a essere competitivo data la presenza preoccupante di fenomeni estesi di lavoro illegale, informale, precario, che si annida nelle parti basse delle filiere produttive, siano esse a Sud, dove il subappalto fuori controllo trionfa, oppure al Nord, come il noto bacino di lavoro sottocosto offerto dalla manodopera cinese in Toscana ci indica. La globalizzazzione è una sorta di livella, al ribasso. E l’assenza di regole e di interventi pubblici a tutela del lavoro favorisce la discesa dei salari e delle condizioni di lavoro.
Perché considerate la trasparenza “un diritto dei cittadini”?
Perché è diritto di un cittadino quando compra, e dunque agisce sul mercato, sapere a quali condizioni sociali è prodotto ciò che acquista. Un diritto che conferisce a ognuno di noi la possibilità di scegliere e premiare le aziende che dimostrano di non avere nulla da nascondere e anzi si espongono al controllo pubblico su un tema così delicato e che ci riguarda tutti: il rispetto dei diritti umani di chi produce.
Naturalmente la trasparenza non è in sé elemento di garanzia che i diritti siano rispettati, ma costituisce la pre-condizione per poterlo verificare. Più di 80 mila cittadini hanno chiesto trasparenza tramite le petizioni che abbiamo lanciato. Il tema è molto sentito perché sta aumentando la sensibilità verso il consumo consapevole e verso la necessità di produrre in maniera sostenibile. Nessuno, credo, vorrebbe indossare vestiti prodotti tramite sfruttamento da schiavi moderni che non potranno mai permettersi una vita decente. La trasparenza, dunque, è una leva importante per rendere le imprese “accountable” verso i diversi stakeholder: lavoratori, consumatori, attivisti, sindacati e governi.
Sono passati quasi 30 anni dalla nascita di Clean Clothes Campaign e una ventina dalla presenza in Italia. Che cosa è cambiato e quali obiettivi avete per i prossimi anni?
Credo che 30 anni di campagne, ricerca, denunce, casi di violazione dei diritti del lavoro portati alla ribalta e anche risolti, anche se non sempre, fino agli accordi storici stipulati dopo il Rana Plaza, abbiano da una parte scosso e prodotto coscienze più critiche, dall’altra portato risultati concreti e tangibili per migliaia di lavoratori. Ma non è abbastanza, naturalmente. E il “business as usual” è una pratica sempre dominante.
Quello che manca sono cambiamenti strutturali, non solo nel settore tessile, che ristabiliscano il principio di priorità dei diritti fondamentali sui profitti. Occorrono regole e perimetri vincolanti che contengano gli effetti negativi delle attività produttive sulle comunità e sulle persone, riducano gli abusi e consentano l’accesso ai rimedi in caso di violazione da parte delle vittime.
Nei prossimi anni sarà prioritario lavorare al rafforzamento della cornice normativa, favorendo processi legislativi a favore della trasparenza e della due diligence obbligatoria sui diritti umani. Sarà anche prioritario lavorare per il raggiungimento di livelli salariali dignitosi lungo le intere catene di fornitura e il raggiungimento di standard di salute e sicurezza che non mettano più a repentaglio la vita dei lavoratori, quasi tutte donne, che confezionano i nostri vestiti e le nostre scarpe, ovunque nel mondo, Italia compresa.