Difensori dei diritti umani: ecco chi e come cerca di fermarli

Nel 2017 sono stati 312 i difensori dei diritti umani uccisi in 27 paesi diversi. Questi i dati preoccupanti messi in luce dal rapporto di Front Line Defenders, presentato il 3 gennaio a Dublino. A rendere ancora più cupo lo scenario la complicità diretta o indiretta degli Stati

È un anno nero quello che si è appena concluso per i difensori dei diritti umani. In tutto ne sono stati uccisi 312 in 27 paesi diversi. A dirlo è Front Line Defenders (Fld) nel report presentato il 3 gennaio a Dublino. «Questi sono i difensori dei diritti umani che sono stati ammazzati nel 2017. Noi li vogliamo ricordare e a loro è dedicato il nostro lavoro». A queste poche righe seguono due pagine con i nomi e i cognomi di tutte le persone che sono state uccise per essersi schierate dalla parte dei più deboli.

La complicità dello Stato contro chi lotta per i diritti

A rendere ancora più preoccupanti le cifre è, in molti casi, il coinvolgimento diretto o indiretto dello Stato. L’impunità dei responsabili e la mancata protezione dei soggetti a rischio rendono lo scenario più cupo. Tutto questo nell’anno in cui si celebra il 20esimo anniversario della Dichiarazione sui difensori dei diritti umani delle Nazioni Unite.

«Le conquiste fatte in questi ultimi 20 anni nel campo dei diritti umani – denuncia il rapporto – non vanno di pari passo con l’azione dei governi. Molti di questi, infatti, continuano a richiedere impegno nel supportare i difensori a livello internazionale, ma nello stesso tempo, internamente, li minacciano tutte le volte che possono».

Difensori dei diritti umani: più colpiti quelli ambientali

Secondo il rapporto della ong irlandese, i più colpiti sono stati gli attivisti ambientali, impegnati in lotte per il diritto alla terra o in difesa dei popoli indigeni contro i mega progetti. Il 67% dei morti ammazzati rientra in questa categoria, rendendo evidente che il fronte dell’accaparramento delle materie prime si conferma uno dei più caldi.

difensori dei diritti umani
Said Nait Lhou, attivista ambientale – Marocco (Foto: Lorena Cotza / Front Line Defenders)

Sempre secondo i dati raccolti da Fld, i difensori che sono stati uccisi, nell’84% dei casi avevano già subito delle minacce. Se prese in considerazione con la dovuta attenzione da parte delle forze dell’ordine, forse alcune vite si sarebbero potute risparmiare.

Inoltre, «solo il 12% dei colpevoli è stato individuato e arrestato». In tutti gli altri casi o le indagini non sono state portate avanti con convinzione, oppure i responsabili sono stati assolti. I paesi più “colpiti” da questa piaga sono quattro, di cui tre in America Latina: Brasile, Colombia, Messico e Filippine. Qui si sono consumati l’80% degli omicidi.

Criminalizzazione e discriminazione di genere

Dalla somma di questi numeri emerge un sistema ormai collaudato di repressione, all’interno del quale chi dovrebbe tutelare attacca e chi prova a difendere viene ucciso. La criminalizzazione rimane la strategia più comune messa in atto dai governi, per ostacolare e delegittimare il lavoro pacifico dei difensori.

«In migliaia vengono incarcerati, messi dietro le sbarre per capi di imputazione confezionati ad hoc, sottoposti a processi lenti, costosi e ingiusti e in alcuni casi condannati a lunghi anni di prigione».

In più, nella pars destruens si riscontra anche una forte discriminazione basata sul genere: le attiviste sono molto più prese di mira e colpite rispetto ai loro compagni di lotta. Come conferma l’ong, «il 23% dei richiami alle autorità presentati da Fld sono stati fatti in difesa delle donne, mentre quelli a tutela di difensori uomini è pari al 10%».

Impunità, l’altra arma dei governi contro i difensori

La complicità dello Stato si legge anche tra le righe dell’impunità. Il non condannare chi si macchia di omicidi e attacchi nei confronti dei difensori equivale a legittimare queste forme di repressione. Un caso clamoroso per Fld è quello relativo all’uccisione dell’attivista indigeno Adolfo Ich.

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Isabel Zuleta, attivista ambientale – Colombia. (Foto: Ivi Oliveira / Front Line Defenders)

In aprile un tribunale del Guatemala ha dichiarato non colpevole il capo dello sicurezza di una miniera data in concessione a una società canadese. Un’assoluzione ingiustificata, viste le prove fornite da un testimone e dal test balistico che dimostrano come l’imputato fosse presente sulla scena del crimine e che lì ha sparato.

La scusa dello “stato d’emergenza” permanente

Diversi paesi si trincerano dietro l’ossimoro dello “stato di emergenza”, che diventa permanente per questioni di sicurezza. Un esempio eclatante è la Turchia, dove le misure messe in atto dal presidente Erdogan, dopo il fallito colpo di Stato del 2016, continuano a legittimare l’incarcerazione di centinaia di difensori dei diritti umani.

In Africa, Asia, America e Medio Oriente, invece, alle proteste pacifiche degli attivisti di solito si risponde con la violenza. Per giustificare il proprio operato, i governi innalzano lo stendardo della cospirazione, facendo passare l’azione dei difensori come «un’interferenza estera in affari di politica interna». Oppure etichettandoli come «nemici pubblici», per isolarli e creare un solco tra loro e le stesse persone per i cui diritti si battono.

Da Trump a Putin, i politici che preoccupano

Per Fld, infine, lo scenario politico globale è poco incoraggiante, dal momento che «tra gli attori principali c’è il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che supporta governanti autocratici accusati di violazioni sistematiche dei diritti umani, come ad esempio il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte».

Ma a preoccupare sono anche l’Egitto e la Turchia, oltre a una serie di paesi americani, la Cina e anche la Russia, vista l’intenzione di Valdimir Putin di candidarsi nuovamente alle elezioni presidenziali in programma per quest’anno.

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