Messico: ancora sfollati interni in Chiapas a 20 anni dai fatti di Acteal
Migliaia di persone hanno abbandonato le proprie case nel Sud-Est Messico per un conflitto legato al diritto alla terra. Tra quanti si sono rifugiati in montagna, una decina sono già morti per fame e freddo. A pochi chilometri di distanza, 20 anni fa si consumò il massacro nella chiesetta di Acteal e migliaia di donne, bambini e uomini furono costretti a vivere come sfollati interni per anni
Adriana De Jesus Pérez Pérez era nata il 29 aprile del 2015 ed è morta il 30 novembre del 2017. Era figlia di Martin Pérez Luna e Carmela Pérez Pérez ed era nata in un piccolo gruppo di case conosciuto come paraje Pom, nel municipio di Chalchihuitan, in Chiapas, uno Stato del Messico sudorientale.
La piccola Adriana non è morta nella sua casa, però, ma di fame e di freddo in montagna, dove la sua famiglia si è rifugiata a metà novembre. In quel periodo, Martin e Carmela, insieme a quasi 5 mila persone, sono stati costretti ad abbandonare la propria comunità.
Una situazione che ha fatto tornare attuale nella regione degli Altos del Chiapas un vocabolo evocativo e molto usato nella seconda metà degli anni Novanta, desplazados internos, cioè “sfollati interni“. Una categoria che – secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) – qualifica «persone che sono tra le più vulnerabili al mondo».
Sfollati interni: già dieci morti, tra i quali quattro bambini
Adriana non è l’unica vittima di questa tragedia, che è stata denunciata per la prima volta dal Centro diritti umani Fray Bartolomé de Las Casas di San Cristóbal de Las Casas (la città più importante della regione de Los Altos) lo scorso 21 novembre. Un dramma che ha a che fare con il diritto alla terra e nasce dall’inasprimento di un conflitto agrario quasi quarantennale per l’assegnazione di 363 ettari di terra. Una disputa che vede contrapposti Chalchihuitan e il municipio vicino di Chenalhó.
Secondo l’ultimo aggiornamento, diffuso il 16 dicembre da Marcelo Pérez Pérez, parroco della comunità di Simojovel (sempre negli Altos) e responsabile della pastorale sociale della diocesi di San Cristóbal, sarebbero già 10 i morti, quattro dei quali bambini (tra loro anche un neonato, la cui madre ha partorito in condizioni abitative precarie dopo esser fuggita dalla propria abitazione).
Morire di polmonite in Messico
Per molti la causa accertata della morte è una polmonite, perché sono costretti a dormire per terra e riparati alla meglio da teloni di plastica, in una zona dove l’altitudine media è di 2.000 metri sul livello del mare.
I rischi sono confermati anche dal rapporto presentato da una “brigata medica” che si è recata nell’area l’11 dicembre, promossa dalle organizzazioni non governative locali Salud y Desarrollo Comunitario (Sadec) e Casa de la Mujer Ixim Antsetic (Cam), insieme alla Uam-Xochimilco, un’università di Citta del Messico.
«Le persone che soffrono di diabete stanno vivendo complicazioni a causa dello stress e della mancanza di cibo e medicine. Durante la notte si possono ascoltare colpi d’arma da fuoco e secondo alcuni potrebbero arrivare i paramilitari, tanto che la situazione potrebbe diventare più pericolosa».
Un conflitto agrario tra due piccole città
La violenza latente nel conflitto agrario tra Chalchihuitan e Chenalhó è esplosa nuovamente il 18 ottobre: un contadino indigeno di etnia Tzotzil, Samuel Luna Girón, originario di una comunità del municipio di Chalchihuitan, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre lavorava il suo campo di mais.
Da quel giorno, secondo le denunce raccolte dal Frayba e da altre organizzazioni per la tutela dei diritti umani attive in Chiapas, i prodromi di una aggressione armata si sono fatti ogni giorno più evidenti, invitando quelli che oggi sono “desplazados” ad abbandonare le proprie abitazioni.
Il 13 dicembre, poi, il Tribunale Agrario ha stabilito che la terra contesa appartiene a Chenalhó. Una decisione che, secondo una rete di una ventina di organizzazioni in difesa dei diritti umani che stanno seguendo il caso, «copre e alimenta gli interessi illegittimi della delinquenza organizzata, la stessa che attraverso l’azione impunita di gruppi armati di tipo paramilitare ha obbligato migliaia di indigeni a divenire rifugiati interni».
Agli sfollati interni sono stati offerti l’equivalente di 130 euro a testa e il governo si sarebbe impegnato a costruire 300 abitazioni, largamente insufficienti per ospitare 5 mila persone.
22 dicembre, 20° anniversario del massacro di Acteal
Quello dei “desplazados” negli Altos del Chiapas è un tema molto sentito. Il 22 dicembre si ricordano 20 anni dal massacro di Acteal, una località del municipio di Chenalhó dove nel 1997 furono uccise barbaramente 45 persone, tutte appartenenti a un’organizzazione pacifista chiamata Las Abejas.
La barbarie, compiuta da appartenenti a gruppi paramiliari, venne consumata nella chiesetta della comunità, dove i fedeli erano riuniti per chiedere pace in un territorio occupato militarmente dall’esercito messicano impegnato a combattere una “guerra di bassa intensità” contro l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), che era insorto con le armi il 1° gennaio del 1994.
Dopo Acteal, migliaia di persone negli Altos furono costrette a vivere per anni come sfollati interni. Ed è questo che oggi porta le organizzazione della società civile, capitanate dal Frayba, a dire che «è allarmante che si produca di nuovo un desplazamiento forzato di queste dimensioni nella stessa zona».
Diritti umani sotto scacco in Messico
Del conflitto in corso tra Chalchihuitan e Chenalhó ha parlato l’8 dicembre scorso Miguel Alvarez Gandara: già stretto collaboratore di Samuel Ruiz, il vescovo degli indigeni del Chiapas, e mediatore tra Ezln e governo messicano, oggi presidente di Serapaz, Alvarez ha vinto il Premio nazionale per i diritti umani 2017:
«Quando sono passati 20 anni dal massacro di Acteal, non si è ancora intervenuti per fermare l’azione dei gruppi paramiliari».
Le foto pubblicate in questa pagina sono tratte dall’archivio Frayba, Sadec e dalla pagina Facebook di Marcelo Pérez Pérez