Caporalato e macellazione carne: cosa c’è dietro al cotechino di Natale
In alcuni casi i salumi arriveranno sulle nostre tavole a Natale attraverso appalti illegali, contratti irregolari e giornate lavorative di 13 ore. Negli impianti di macellazione della carne si diffonde il nuovo caporalato. La denuncia arriva dalla Flai Cgil dell'Emilia Romagna
Sulle nostre tavole a Natale arriverà sotto forma di salumi, cotechini, zamponi. Ma proprio quella carne suina, che da sempre rappresenta l’eccellenza alimentare dell’Italia con consorzi Igp, a volte nasconde storie di diritti negati, orari di lavoro massacranti, cooperative e società di facciata, licenziamenti di massa e sfruttamento della manodopera.
Succede nel distretto modenese delle carni, a Castelnuovo Rangone, dove oggi, 18 dicembre, si svolge una manifestazione che stando alle indicazioni della Flai Cgil dovrebbe coinvolgere circa 500 persone.
La data scelta per la mobilitazione non è casuale: oggi è in programma anche lo sciopero provinciale di 8 ore di tutti i lavoratori dell’industria alimentare, dei lavoratori degli appalti e di quelli somministrati.
Il nuovo caporalato negli impianti di macellazione
Al grido di #bastaschiavi per dire no al nuovo caporalato e alle false cooperative, i manifestanti denunciano la situazione che riguarda gli appalti della Castelfrigo Srl, azienda nata nel 1983 che, come si legge sul sito, occupa 100 unità operative.
Ma non solo. La protesta coinvolge anche tutto il distretto modenese delle carni, dove «regna una diffusa illegalità e un sistema di evasione fiscale e contributiva che riguarda tutto il settore», spiega a Osservatorio Diritti Umberto Franciosi, segretario generale della Flai Cgil Emilia Romagna. Questo porta a «orari massacranti, lavoratori trattati come schiavi, pagati meno di quanto si dovrebbe e non sempre in modo legale».
False cooperative e finte Srl nel settore carne
Un fenomeno, quello del nuovo caporalato, che nel mondo della macellazione è sempre più frequente. E non solo in Emilia Romagna. La parola magari può rimandare al caporalato del mondo dell’agricoltura, ma nel settore delle carni le cose sono un po’ diverse. A spiegarne le caratteristiche è ancora il segretario della Flai Cgil:
«Nell’agricoltura di solito gli intermediari sono persone in carne e ossa, mentre per quanto riguarda gli impianti di macellazione, trasformazione e logistica diventa centrale l’appalto. Funziona più o meno così: l’azienda committente appalta il lavoro a un consorzio, di solito formato da uno o due dipendenti, a cui sono collegate delle cooperative ma anche delle Srl che hanno il compito di reclutare la manodopera e di fatto sono responsabili dello svolgimento del lavoro presso l’azienda committente».
Le cooperative non sono davvero tali, ma, come vengono definite dai sindacati, sono “spurie”, cioè false.
«Tale forma societaria viene scelta infatti per derogare, in virtù della legge 142/2001, da tutti gli istituti contrattuali come la determinazione dell’orario di lavoro, il pagamento della malattia e infortunio, la flessibilità degli orari, i preavvisi. In questo modo, e anche tramite finte assemblee, le cooperative riescono ad andare sotto i minimi contributivi, a dichiarare false crisi e poi a chiudere».
Soci-lavoratori e part-time: i trucchi delle aziende
I lavoratori reclutati dalle finte cooperative sono ovviamente anche soci e spesso senza averlo scelto: è una condizione per ottenere il lavoro di cui hanno bisogno. Negli ultimi tempi, inoltre, oltre alle cooperative finte stanno prendendo sempre più piede le società a responsabilità limitata (Srl). Anche in questo caso, c’entra quanto previsto dalla legge solo qualche anno fa.
Con le Srl semplificate – che in teoria avrebbero dovuto aiutare i giovani che volevano dar vita a un’azienda (decreto legislativo 1/2012) – si possono aprire società a responsabilità limitata con capitali sociali molto bassi e senza che il socio rischi i propri beni personali.
«Le Srl, a differenza delle cooperative, sono più legate al rispetto dei contratti collettivi di lavoro», aggiunge Franciosi, «ma spesso quello che capita è che vengano assunti lavoratori con finti part time».
Appalti irregolari e costi del lavoro troppo bassi
Si tratta dunque di «soggetti che attraverso imprese fittizie fanno intermediazione di manodopera», dice ancora Franciosi. Stando a ciò che evidenzia il sindacato, infatti, queste imprese non rispettano la legge.
Un appalto, secondo l’articolo 1655 del Codice civile e secondo l’articolo 29 del decreto legislativo 276/2003, per essere legittimo prevede che l’impresa appaltatrice rispetti il rischio d’impresa e l’autonomia organizzativa.
Stando al primo requisito, bisogna avere un minimo di struttura imprenditoriale, con sedi legali, uffici, impiegati. Quello che capita, a quanto pare, è che invece le consorziate abbiano tutte lo stesso indirizzo o che la sede sia presso l’abitazione di un prestanome, spesso un immigrato extracomunitario.
«Riescono poi ad aggirare l’autonomia organizzativa che deve avere l’impresa appaltatrice mettendo dei “caporali” che a volte non sanno leggere e scrivere e che sono di fatto dei fantocci. In apparenza, hanno ruoli di capolinea, ma in pratica ricevono ordini dal committente che dice chi deve essere lasciato a casa e chi no».
Inoltre, queste pseudo-imprese hanno dei costi del lavoro davvero bassi: «Si va dagli 11 ai 14 euro e mezzo l’ora, compresi i contributi previdenziali, cosa che di fatto non è sostenibile», denuncia il sindacalista.
Malattie professionali non riconosciute
I lavoratori, che sono per lo più immigrati, sono reclutati tramite il passaparola tra gli stessi operai, tra comunità di parenti ed amici e si adattano a svolgere ogni genere di attività.
«Viene preso chiunque, quel che conta è la disponibilità a lavorare, anche con il coltello in mano. Dopo un po’ si impara ma magari, quando questo è avvenuto, l’operaio si è già rovinato il polso. E c’è da fare i conti anche con un altro aspetto: se da un lato le norme sulla sicurezza del lavoro vengono rispettate, c’è invece l’esplosione delle malattie professionali che non sempre vengono riconosciute come tali».
Questo avviene, per esempio, perché a volte nel contratto sono indicate meno ore di quante previste dall’Inail in caso di determinate patologie.
250 ore di lavoro e finte trasferte nel settore carne
Non essendoci limiti di orario di lavoro, si sa quando si entra, ma non quando si esce. E i lavoratori del settore carni arrivano anche a 250 ore al mese. In fondo, basta fare due conti: 12/13 ore per 5/6 giorni lavorativi. E questo a ritmi altissimi e con pochissime pause.
«Solo una parte di queste ore sono retribuite in modo reale», dice Franciosi, «mentre per il resto vengono utilizzate trasferte inesistenti e finti rimborsi, tutte voci retributive su cui non c’è prelievo fiscale e previdenziale».
Le imprese, dunque, risparmiano sui contributi previdenziali e i lavoratori non hanno le trattenute Irpef e Inps.
Evasione fiscale: uno schema per aggirare Iva e Irap
In tutta questa vicenda, l’unica che riesce a indagare è la Guardia di finanza perché nell’appalto dall’impresa committente al consorzio, e di conseguenza alle cooperative, ci può essere evasione dell’Iva e dell’Irap.
L’azienda che commissiona il lavoro, attraverso un appalto di opere e servizi, recupera l’Iva dallo Stato. Il consorzio scarica sulle cooperative o Srl la stessa Iva e queste, che dovrebbero essere quelle che la versano allo Stato, chiudono dopo poco tempo, rimandando così il debito. Nel frattempo, lo Stato rimborsa l’Iva all’azienda committente e al consorzio, senza che però l’abbia davvero recuperata. A conti fatti, dunque, si tratta di un costo per tutta la collettività.
Per quanto riguarda l’Irap, l’Imposta regionale sulle attività produttive, che è legata al fatturato, la situazione è simile. L’impresa appaltatrice non è tenuta a pagarla perché i lavoratori, anche se diretti dall’impresa committente, non sono di fatto suoi dipendenti. Stesso discorso per il consorzio. Mentre a doverla pagare, in quanto suoi dipendenti, dovrebbero essere le Srl o le false cooperative, che, chiudendo senza lasciare traccia, aggirano il Fisco.
I sindacati denunciano la situazione alla Castelfrigo Srl
Negli ultimi giorni i mezzi d’informazione hanno scritto spesso della Castelfrigo Srl, una società con sede a Castelnuovo Rangone, in provincia di Modena, specializzata nella lavorazione e nel commercio delle carni che appalta buona parte del suo lavoro.
Stando alla denuncia del sindacato, la vicenda che vede protagonista l’azienda avrebbe tutti i contorni del nuovo caporalato: ha appaltato per anni il lavoro al consorzio Job Service cui fanno capo cinque cooperative. Una situazione che dalla Flai Cgil è stata denunciata per anni e che negli ultimi mesi sarebbe degenerata.
Cooperative licenziano 127 lavoratori «senza motivo»
Il sindato parla di lavoratori sfruttati, senza pause, che non avevano neanche il permesso di andare in bagno, con turni infernali, finché nel gennaio 2016 «si è riesciti a firmare un accordo che prevedeva sostanzialmente tre punti: l’accordo con le relazioni sindacali, una clausola che garantisse l’occupazione all’interno del sito e l’applicazione del contratto dell’industria alimentare. Purtroppo», lamenta Franciosi, «quanto al primo punto si comunicava solo via Pec (la posta elettronica certificata, ndr), senza alcun incontro dal vivo, e a partire da giugno 2017 vennero avviate due procedure di licenziamento collettivo per 127 lavoratori».
Questi 127 lavoratori, si legge sul sito Nuovo Caporalato.it della Flai Cgil Emilia Romagna, sono assunti da due cooperative, la Ilia D.A. e la Work Service, che fanno parte del consorzio Job Service e hanno motivato la scelta delle procedure di licenziamento con il calo di lavoro e per cessazione di attività, quando invece «nello stabilimento si continua a lavorare anche 13 ore al giorno e le cooperative che vengono chiuse di fatto poi sono aperte con altre nomi», dice Franciosi.
Si tratta di persone che «hanno dai 30 ai 40 anni, ruoli vari, sia addetti alla lavorazione carni sia alla movimentazione, e sono tutti immigrati. Tra le nazionalità prevalenti: Ghana, Albania, Cina»
Dal 19 dicembre sciopero della fame per 3 lavoratori
Il licenziamento, dice ancora la Flai Cgil, avrebbe a che fare con la denuncia della situazione da parte dei lavoratori e ha portato alcuni di loro a cominciare uno sciopero a oltranza dal 17 ottobre scorso, a protestare a Montecitorio, fino ad arrivare alla manifestazione del 18 dicembre.
Martedì 19 dicembre, inoltre, 3 lavoratori più un sindacalista inizieranno uno sciopero della fame.
Non è anche la prima volta che si ritrovano in una situazione simile. Dice ancora Franciosi: «C’è chi lavora in questo sito produttivo da anni, chi ha cambiato cooperativa per 13/14 anni».E aggiunte:
«Ci tengo a precisare che la Castelfrigo e Modena sono solo la punta di un icerberg che riguarda tutto il distretto, ma anche altre parti d’Italia. Noi puntiamo a far sì che questi lavoratori possano rimanere nel sito produttivo, magari suddividendo il lavoro con gli altri. E vorremmo che questa vicenda servisse ad accendere davvero i riflettori e a risolvere un problema che è ormai annoso».
Macellazione della carne: una filiera troppo frastagliata
Le radici di questa situazione vanno cercate nelle caratteristiche della macellazione in Italia, contrassegnata dalla frammentazione della filiera e dalla minore capienza degli impianti di macellazione. «Rispetto all’Europa, l’impianto più grande ha una capienza che è di quattro volte inferiore», dice Franciosi. Che prosegue:
«Se negli altri Stati europei le attività diverse sono svolte all’interno, in Italia i macelli, gli impianti di sezionamento, il salumificio non sono nello stesso stabilimento. Nella filiera della carne entrano sempre più in gioco diversi attori, soggetti che devono lucrare e che portano a maggiori costi di gestione, di trasporto e tutto il resto».
L’Italia, inoltre, è un grande esportatore di carne suina e in tutto questo ci sono da considerare anche le forti pressioni sia dalla grande distribuzione organizzata, sia delle grandi imprese della salumeria italiana.
Imprese appaltatrici: la legge non aiuta a fare chiarezza
La legge sul sistema degli appalti pare non aver aiutato. Gli interventi normativi sulla responsabilità solidale dei committenti, infatti, hanno portato alla completa depenalizzazione del reato di somministrazione illegale di manodopera (decreto legislativo 8/2016) e all’abrogazione del reato di somministrazione fraudolenta di manodopera con il Jobs Act, che consente alle imprese di stare tranquille.
La Rossi Carni assume 73 lavoratori
Qualcosa però che si muove anche in senso contrario. È del 13 dicembre, infatti, l’accordo sindacale della Rossi Carni di Vignola (Moderna) con Flai e Filt Cgil che porta all’assunzione diretta di 73 lavoratori in carico alla cooperativa La Pace a cui era appaltato il lavoro.
Come si legge nel comunicato, queste 73 persone avranno il contratto della piccola-media industria alimentare e non il contratto della logistica, non saranno soggetti al Jobs Act per quanto riguarda l’articolo 18 e usufruiranno di tutto ciò che hanno i lavoratori interni, compresi 13esima e 14esima, ferie e permessi di cui prima non potevano godere.
«L’accordo è certamente un risultato fondamentale», hanno commentato i sindacalisti della Cgil Antonio Puzzello, Diego Bernardini e Diego Capponi, «perché rappresenta un vero spartiacque che va in controtendenza rispetto a tante aziende del distretto carni modenese, garantendo diritti e qualità del lavoro che sono i presupposti per la qualità dei prodotti».
(Le foto dei lavoratori delle cooperative appaltate dalla Castelfrigo sono tratte dalla pagina Facebook della Cgil Modena).