Canna da zucchero in America Latina: una filiera di sfruttamento
Braccianti senza contratto, pagati a cottimo. I lavoratori impiegati nel taglio della canna da zucchero non hanno diritti in Nicaragua e Guatemala. Per i più poveri, per i senza terra, non c'è alternativa. La denuncia nel dossier di Mani Tese
«Lavorano per ore e ore sotto il sole, senza possibilità di riposare all’ombra e di accedere a fonti d’acqua». Così Chiara Cattaneo, program manager della campagna “I Exist” di Mani Tese, descrive a Osservatorio Diritti le condizioni di lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero dell’America centrale. Nel dossier pubblicato da Mani Tese, “La filiera amara della canna da zucchero”, l’ong approfondisce il lato oscuro della produzione di uno dei beni di consumo più diffusi su scala globale.
La coltivazione della canna è ancora scarsamente meccanizzata, per questo ha bisogno di lavoratori stagionali, soprattutto nella fase della raccolta.
«È un lavoro fisicamente molto debilitante, perché bisogna tagliare manualmente fusti che possono raggiungere diversi metri di altezza», dice Chiara Cattaneo. Per velocizzare la fase di raccolta si utilizza anche il fuoco, che brucia sterpaglie e allontana gli animali, ma non danneggia il fusto della pianta ricco del liquido che sarà trasformato in zucchero.
Taglio della canna da zucchero: lavoro senza contratto
Spesso a essere impiegati nel settore sono le popolazioni più vulnerabili, coloro che non hanno alternative. Si tratta di braccianti, senza terra, di uomini e donne appartenenti a comunità indigene o di migranti stagionali, che si spostano all’interno del paese in cerca di lavoro.
Lavorano a cottimo, vengono pagati in base alla quantità di canna che viene tagliata. Il guadagno, infatti, varia a seconda del raccolto, delle condizioni climatiche, dell’età e della forza fisica del bracciante.
«In molti casi chi lavora nelle piantagioni di canna non è dipendente dell’azienda agricola, perché vige un sistema di subappalto».
La program manager di Mani Tese dice che questi lavoratori «difficilmente hanno firmato un contratto, spesso si tratta di accordi verbali». I conti non tornano, secondo l’ong, quando si confrontano i numeri dei dipendenti delle aziende e la quantità di braccia necessarie al lavoro nei campi.
Spesso i dipendenti sono inferiori a quelli utili alla raccolta. «In questo modo le aziende non si assumono alcuna responsabilità di tutela dei lavoratori, impiegati unicamente per periodi molto brevi».
Nicaragua: legge in difesa dei lavoratori non applicata
In Nicaragua, uno dei paesi in cui si è svolta la ricerca di Mani Tese, le norme prevedono che ai lavoratori siano garantite zone in ombra, fonti d’acqua e pause, ma tutto questo è disatteso. «La legislazione a tutela dei lavoratori esiste già, si tratterebbe di metterla in atto», sottolinea Chiara Cattaneo. Che aggiunge:
« Il passaggio che manca è quello del monitoraggio e della sanzione delle imprese che non rispettano le norme».
Lotta ai sindacati e niente libertà di parola
Anche l’associazionismo e la presenza dei sindacati sono fortemente osteggiati. Dice ancora Chiara Cattaneo: «In Nicaragua non abbiamo potuto pubblicare nemmeno il nome dei nostri collaboratori sul campo perché non è garantita la libertà di parola o di associazione».
Mani Tese ha trovato conferma della limitata libertà sindacale parlando con i lavoratori. In molti hanno dichiarato che, per poter lavorare, non si deve essere in contatto o far parte di un sindacato, altrimenti si ha la certezza che non si otterrà il lavoro la stagione successiva.
Guatemala: il land grabbing della canna da zucchero
136.000 ettari coltivati a canna, primo prodotto da esportazione del paese. La filiera dello zucchero dà lavoro a circa 425.000 persone, di cui 30.000 sono braccianti, chiamati solo nella fase della raccolta. Questi numeri danno l’idea del ruolo delle monocolture di canna da zucchero in Guatemala.
Il paese centro americano attualmente risulta avere una delle percentuali maggiori di concentrazione della proprietà terriera. Secondo dati Oxfam, l’80% delle terre è nelle mani di otto proprietari.
Contadini senza terra e insicurezza alimentare
L’espansione delle monocolture ha privato della terra circa mezzo milione di contadini, in molti casi di origine indigena. «Analizzando il fenomeno di concentrazione della terra, le politiche a favore della produzione di beni da esportazione e il potere d’acquisto delle popolazioni che vivono ai confini delle piantagioni, emerge un drastico peggioramento dei valori nutrizionali medi», sottolinea Chiara Cattaneo. La perdita delle terre per molte comunità ha significato una maggiore vulnerabilità e un aumento dell’insicurezza alimentare.
Coltivazione della canna da zucchero e indigeni
In Guatemala la forza lavoro utilizzata nelle piantagioni è composta per più dell’80% da persone appartenenti a comunità indigene, la fascia più povera della popolazione. «Vivono una situazione di ricatto», sottolinea Chiara Cattaneo.
«Da un lato la presenza delle monocolture ha eroso le terre ancestrali di queste popolazioni, ma, dall’altro, la canna da zucchero garantisce loro l’unica possibilità di guadagno e di sopravvivenza».
L’assenza di certificati di proprietà della terra, inoltre, rende molto difficile per le comunità poter rivendicare i territori. «Sono state violate tutte le convenzioni che prevedono il consenso libero, preventivo e informato»: così Chiara Cattaneo evidenzia come alle comunità non venga lasciato il tempo per comprendere quello che sta avvenendo alla loro terra ancestrale.
Movimenti sociali in America Latina
Ad ogni modo, «nonostante il clima repressivo esiste una società civile molto forte e consapevole». I movimenti sociali sono inclusivi, riuniscono identità diverse: dai popoli indigeni alle donne, dai lavoratori ai piccoli agricoltori.
Le lotte vengono portate avanti con coraggio e determinazione: «Bisogna considerare che si tratta dei paesi in cui si registrano le percentuali più alte di uccisioni dei difensori della terra, dell’ambiente e dei diritti umani», conclude Chiara Cattaneo.
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