Burundi: guerra civile tra diritti umani violati e repressione

Reportage da Bujumbura, dove la dittatura del presidente Pierre Nkurunziza continua a far registrare violazioni dei diritti umani e una brutale repressione contro chiunque si opponga al suo potere. Tanto che dopo le denunce dell'Onu arriva ora anche l'intervento della Corte penale internazionale, che ha aperto un'inchiesta

da Bujumbura, Burundi

Era l’aprile del 2015 quando il Burundi fu trascinato di nuovo in una dittatura militare fatta di arresti, torture, sparizioni, esecuzioni sommarie e fosse comuni. Ma per comprendere l’orrore che ancora oggi si consuma nelle strade dell’ex colonia belga occorre riavvolgere il filo della storia e tornare indietro di due anni e sette mesi.

Il presidente del Burundi viola la Costituzione

Aprile 2015, il presidente Pierre Nkurunziza annuncia alla nazione la sua volontà di volersi candidare a un terzo mandato, violando così la carta costituzionale. La Costituzione burundese, nata con gli accordi di Arusha che hanno posto termine a una ventennale guerra civile che ha provocato 200 mila morti, infatti, impone che nessun leader rimanga al governo per più di due turni.

La decisione della guida del Paese e leader del partito CNDD-FDD di correre una terza volta per la massima carica amministrativa dello Stato genera quindi immediate polemiche e contestazioni. Subito esplodono proteste e manifestazioni nelle vie di Bujumbura: ad aprile 2015 scontri di piazza e cariche della polizia scandiscono le giornate della capitale. Poi la repressione: radio e giornali chiusi, porte dell’università sprangate, arresti, omicidi, sparizioni.

A luglio 2015 dello stesso anno vengono indette le elezioni. E Nkurunziza, come prevedibile, vince, affermando il suo potere con la repressione e il terrore e violando la Costituzione e gli accordi di Arusha.

Burundi Pierre Nkurunziza

Il presidente del Burundi, Pierre Nkurunziza (via Flickr, Photo: DOC)

La capitale del Burundi non è caratterizzata dal traffico congestionato e dalla frenesia tipica delle metropoli africane. Una calma inquietante e una paura assoluta sembrano aver plasmato ogni aspetto della vita lungo le sponde del lago Tanganica. I mercati sono chiusi, sporadiche esplosioni di colpi di Ak47 e granate irrompono nella quotidianità, il clima di sospetto aleggia e ovunque ci sono uomini della polizia con le divise blu, i Ray-Ban calati sul naso e il kalashnikov a tracolla a difendere il regime e a presidiare il terrore.

Gruppi d’opposizione nascosti nella capitale Bujumbura

Bujumbura è un reticolato di fronti interni, uno scacchiere con quartieri lealisti e quartieri contestatari. Ed è in quest’ultimi che si annidano i gruppi d’opposizione. Tra i più attivi c’è la Red Tabara, Résistance pour un Etat de Droit au Burundi (Red-Tabara), una formazione armata che conduce azioni ai danni di polizia ed esercito.

Il gruppo è nato per contrastare il regime di Nkurunziza e ha come obiettivo quello di portare alla formazione di un governo democratico. È guidato da Melchiade Biremba, un hutu, ex studente di giurisprudenza incarcerato nel 2010 per le sue posizioni antigovernative. E tutti i membri del gruppo vivono in clandestinità e si spostano di notte per compiere azioni e poi nascondersi nei covi disseminati nei quartieri periferici di Bujumbura.

In Burundi i servizi segreti hanno orecchie e collaboratori ovunque, nessuno si fida più di nessuno e nei ristoranti, nei bar, nei luoghi pubblici ormai ogni discorso inerente la politica e la situazione sociale del paese è di fatto proibito.

L’incontro con due membri della ribellione burundese

Ecco allora che per incontrare due membri della ribellione è necessario recarsi in una casa privata al riparo da occhi e orecchie indiscrete. Si chiamano Olivier e Thomas, 32 e 38 anni, studenti ieri, oggi invece giovani latitanti.

«Abbiamo deciso di prendere in mano le armi per liberare il Paese. Noi vivevamo tranquilli fino a quando il presidente ha deciso di ricandidarsi e violare la Costituzione. Lui ha imposto un regime, ha chiuso i media, ha eseguito arresti e molti nostri compagni di scuola e amici sono scomparsi o torturati. Non conosce nessun altro dialogo se non quello della forza ed è per questo che abbiamo deciso di armarci e combatterlo. Libertà o morte! Non c’è scelta».

Sono convinti delle proprie idee, l’idealismo sembra anteporsi a qualsiasi paura e analisi, prevedono che in breve tempo una rivoluzione popolare possa riportare la democrazia. «Noi siamo tutsi, ma nelle nostre fila ci sono anche degli hutu. Il presidente vuole creare odio etnico e accusa la minoranza tutsi di essere formata da terroristi. Noi invece vogliamo uguaglianza e giustizia e visto che la comunità internazionale non ci aiuta ci libereremo da soli».

Sogni che svaniscono così come vengono pronunciati. All’indomani una telefonata. Nella notte Thomas è stato arrestato, è sparito. Non si sa nulla del suo destino, ciò che si sa però è che la sua è una storia analoga a quella di tanti altri giovani burundesi.

Tre racconti di guerra: fosse comuni, torture, sparizioni

Basta recarsi nel quartiere di Buhayira per sentire racconti di guerra. Come quello di Jean che, pervaso ancora dalla paura, indica la cava poco distante dalla sua abitazione, e confida che lì, in realtà, ci sono le fosse comuni e rammenta la notte in cui sentì le urla dei prigionieri, uomini e donne, che pochi istanti prima di essere uccisi, piangendo e gridando, supplicavano i militari di risparmiare loro la vita. E quelle urla ancora, confessa, ritornano a fargli compagnia come incubi che non se ne vogliono andare.

Oppure c’è la storia di Emmable che racconta le torture da parte dei militari che l’hanno arrestato perché ad aprile aveva partecipato alle manifestazioni. Parla di pestaggi con spranghe di ferro e di elettrodi attaccati ai testicoli.

E poi c’è Aime, che dopo che sua sorella è stata prelevata dai servizi di sicurezza del governo non ha più avuto notizie di lei e la sola cosa che gli è rimasta, è la speranza che sia morta senza aver sofferto.

Violazioni dei diritti umani e violenza in Burundi

La storia del Burundi da aprile 2015 a oggi è puntellata da continue violazioni dei diritti umani e da un’escalation di violenza che non sembra riuscire a trovare una fine. Le cifre, da quando è iniziata la crisi, parlano di 400.000 profughi fuggiti nei Paesi confinanti e di 200 mila sfollati interni.

E a questi dati vanno aggiunti anche i numeri resi pubblici dall’ultimo report della Federazione internazionale per i Diritti Umani (Fidh) che parlano di oltre 1.200 morti accertati, tra i 400 e i 900 casi di sparizioni, e oltre 10 mila casi di detenzioni arbitrarie.

La repressione del governo di Bujumbura

Inoltre sono comprovate le responsabilità della polizia, dei servizi di sicurezza e della gioventù del partito al potere, gli Imbonerakure, nelle violenze. La repressione del governo di Nkurunziza ha poi coinvolto i media, ma anche l’apparato statale, come dimostrano le epurazioni effettuate nell’esercito e tra i leader del partito CNDD­-FDD.

E in questi due anni le istituzioni internazionali come l’Unione africana e il Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite (che pure hanno denunciato crimini dell’umanità nel paese) non sono ancora riuscite a trovare una strategia politica che conduca il Burundi fuori dalla crisi.

L’intervento della Corte penale internazionale

Per cercare di fare luce su quanto sta avvenendo nel paese dei Grandi Laghi dove un regime, lontano dai riflettori dei media internazionali, sta sempre più assumendo i connotati di una dittatura totalitaria grazie anche a una situazione politica analoga negli altri stati della regione, è intervenuta quindi direttamente la Corte penale internazionale, che il 9 novembre ha reso pubblica la decisione di aprire un’inchiesta su quanto avvenuto tra il 25 aprile 2015 e il 26 ottobre 2017, vigilia del giorno in cui il Burundi ha deciso di ritirarsi dalla Cpi, primo dei 124 paesi membri a farlo.

L’inchiesta che dovrà condurre la Cpi si preannuncia difficile e complessa, ma la speranza dell’opinione pubblica internazionale è racchiusa in quanto dichiarato da Florent Geel, responsabile dell’Africa per la Fidh: «Per le vittime, che ormai non possono più aspettarsi nulla dalla giustizia burundese, e che hanno dovuto soffrire anche per l’indifferenza della comunità internazionale, l’annuncio della Cpi suona come un’immensa speranza. Speranza di vedere i crimini compiuti uscire dall’oblio, ma anche la speranza, un giorno, di ottenere giustizia».

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