Alessandro Leogrande, ricordo di un giornalista e difensore dei diritti

Alessandro Leogrande è uno scrittore e giornalista morto ad appena 40 anni di età. Un uomo e un professionista con una capacità d'analisi della realtà che ha fatto scuola. Ha scritto di mafia, migranti, lavoratori, sfruttamento. Schierandosi dalla parte di chi vedeva violati i propri diritti. Questo è il ricordo che Osservatorio Diritti ha deciso di pubblicare. Un ricordo affidato a Gaetano De Monte, legato a lui da un lungo rapporto umano e professionale

Questo è l’articolo che non avrei mai voluto scrivere. È il ricordo di un amico. Uno dei maggiori giornalisti italiani contemporanei, scomparso il 26 novembre prematuramente. Alessandro Leogrande era nato a Taranto nel 1977, quarant’anni fa. Ed è deceduto improvvisamente a Roma, a causa di un malore.

Nella Capitale viveva e lavorava stabilmente, dopo aver conseguito la laurea in Filosofia politica all’Università La Sapienza. Ma di Taranto, la città che gli aveva dato i natali e a cui era ancora intimamente legato, non aveva mai rinunciato a raccontare, nelle sue spesse ed infinite contraddizioni.

Alessandro era ancora un liceale quando muoveva i primi passi nel giornalismo, scrivendo saggi per la prestigiosa rivista Galaesus prodotta dagli studenti e dai docenti del liceo classico Archita.

Risalgono alla seconda metà degli anni ’90, invece, le sue prime corrispondenze in radio. Dalle frequenze di Primavera Radio, costola locale di Radio Popolare Network, ci accompagnava ai cancelli della grande fabbrica di cui allora non parlava nessuno, l’Ilva. Leogrande dava così voce agli operai protagonisti del passaggio storico che aveva portato l’industria pubblica, Italsider, alla sua privatizzazione, avvenuta nel 1995 con l’avvento di Patron Emilio Riva. Raccontava come stava mutando quella che era considerata la classe operaia più fortunata economicamente del Meridione, come cambiavano i suoi desideri, i costumi, il modo di lottare, e anche di votare.

Si muoveva in una città profondamente diversa da quella di oggi. Erano gli anni immediatamente successivi alla guerra di mala che aveva lasciato sul campo 160 morti, del sindaco “telepredicatore” (poi anche parlamentare) che dalle sue tv private lanciava strali e invettive contro i migranti, i rom, le prostitute, e che pochi anni dopo sarà condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.

Era una “Taranto nera” quella in cui era cresciuto Leogrande. E a quel tempo era stato quasi l’unico ad aver avuto il coraggio di raccontarne l’anima cupa, più tetra: il reparto confino dell’Ilva, la tristemente famosa Palazzina Laf dove venivano rinchiusi tutto il giorno a non far nulla i dipendenti scomodi, il disagio delle periferie dormitorio, le rivendicazioni degli ultimi.

In questo contesto politico e sociale nacque la sua prima opera letteraria, Un Mare nascosto. Un libro che si apre con un’immagine del clima quegli anni: un corteo di 10 mila persone che marciano a sostegno del sindaco Giancarlo Cito dopo un avviso di garanzia ricevuto per mafia. In testa, un solo striscione che recitava “Siamo tutti mafiosi”. Quel saggio fu pubblicato nella raccolta di scritti “il Corpo e il Sangue d’Italia” curato da Cristian Raimo per minimum fax.

Da allora, Alessandro Leogrande ci ha condotto nelle viscere dei misteri d’Italia con le storie dei trafficanti di uomini e sigarette in Le Male Vite (Edizioni Ancora del Mediterraneo) e di sfruttamento in Uomini e caporali (Mondadori 2008). Il capolavoro, quest’ultimo, con cui aveva ricevuto diversi riconoscimenti: il Premio Omegna, il Premio Sandro Onofri e il premio Biblioteche di Roma.

«Uomini e caporali, sulla tragedia dei nuovi schiavi, prima che ne parlassi tu erano ombre, non avevano nazionalità né nome. Li hai resi uomini e, aprendoci gli occhi, ci hai resi uomini», ha scritto in queste ore Roberto Saviano, che proprio da Alessandro Leogrande è stato “scoperto” con il suo primo romanzo, Super Santos. Già, perché una parte significativa della carriera di Alessandro Leogrande l’ha passata al fianco del critico Goffredo Fofi, con cui per diversi anni ha animato la rivista di arte, culture, scienze e letteratura Lo straniero.

Contemporaneamente, Alessandro scriveva per il Corriere del Mezzogiorno, il Manifesto, Pagina 99, Internazionale. Pubblicava libri, quasi un best seller ogni due anni. Romanzi, letteratura no fiction intrisa di denunce civili. Uno stile quasi unico.

Vennero così il racconto del disastro della Kater I Rades (la motovedetta albanese affondata al largo di Otranto nel 1997), l’opera Il naufragio (Feltrinelli 2011), con cui vinse il Premio Paolo Volponi. E Fumo sulla città (Fandango 2013), «un diario zibaldone nel presente scomposto della città di Taranto, un libro che racconta i tanti cocci che hanno generato la più grande crisi ambientale ed industriale che l’Italia ricordi», per dirla con le parole di Alessandro.

L’ultima opera di Leogrande, uscita per Feltrinelli alla fine del 2015, è La frontiera. «Una linea mobile, dotata di opportuni sistemi difensivi, che delimita e riconosce due stati», che nel libro è raccontata come metafora dell’esistenza di milioni di donne e uomini che scappano da guerre, fame, persecuzioni politiche. Una sequenza fitta di racconti e biografie, custodite e raccolte dalla memoria dell’autore nello spazio di un decennio. E ora diventate parte della sua eredità.

Proprio le sue parole, quelle dette e scritte con un’inedita gentilezza e raffinatezza, sono appunto il suo lascito. Così come il suo sguardo sulla realtà e il metodo fanno parte del ricordo di Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore, da sempre impegnato sul fronte dei diritti.

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