Simon Panek (People in Need): «Ong usate per canalizzare paura dei migranti»

Simon Panek, fondatore di People in Need, una delle più importanti ong dell'Europa centro-orientale, racconta a Osservatorio Diritti come vede l'Europa di fronte alla sfida dell'immigrazione. Il lavoro umanitario, da 15 anni, è ormai sotto attacco. E trovare le risposte alle crisi è sempre più difficile. Ma c'è speranza

Per difendere la democrazia serve controbilanciare i “troublemaker”, i piantagrane. L’Europa ha bisogno di portavoce di altri valori che sappiano incarnare anche quello che esiste oltre la paura e il populismo. È ciò che spiega a Osservatorio Diritti Simon Panek, fondatore di People in Need, una delle più importanti organizzazioni non governative dell’Europa Centrale. Da studente Simon Panek – che questa sera parteciperà a un incontro pubblico a Milano sulle politiche d’immigrazione in Europa organizzato dal Coe in collaborazione con Osservatorio Diritti – è stato tra gli attivisti che hanno contribuito alla nascita della Rivoluzione di velluto, quel movimento di piazza che nel 1989 ha cominciato ad abbattere il comunismo nelle periferie dell’impero sovietico.

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Questa estate ci sono stati importanti attacchi contro le ong in tutta Europa, in particolare rivolti a chi lavorava nel Mediterraneo per salvare i migranti. Come legge questo fenomeno dal suo osservatorio di Praga?

Credo che siano degli strumenti usati da certa politica per mobilitare i propri supporter e per creare un nemico. In Ungheria, in particolare, questo è molto evidente. Di solito, in Europa Centro-orientale non si discute molto di questo tema delle ong che salvano i migranti perché i confini marittimi sono lontani.

Ma è vero che le ong sono state un bersaglio per canalizzare la paura legata agli arrivi di richiedenti asilo, migranti economici e profughi ambientali. È più semplice per la politica addossare la colpa alle ong invece che affrontare problemi come la guerra in Siria. C’è da dire, dall’altra parte, che alcuni piccoli argomenti andrebbero affrontati una volta per tutte. Come per esempio fin quanto ci si può spingere in acque libiche: sono salvataggi o trasbordi? Non è una questione semplice, ma credo si debba decidere in che modo dobbiamo comportarci e credo che per le ong sia un dovere spiegare come agiscono e perché.

In questi anni si sono visti sempre più attacchi a ospedali e missioni umanitarie, rapimenti e uccisioni di operatori umanitari e attivisti. È più difficile, oggi, lavorare nel settore degli aiuti non governativi?

In Repubblica Ceca la situazione non è così drammatica. C’è in corso una campagna politica dei nazionalisti-populisti contro di noi. In effetti sentiamo che c’è una società polarizzata e sempre più frustrata, dove c’è paura per il futuro. È una situazione che dà spazio a chi vuole cercare i colpevoli. Vengono indicati i seguaci di Vaclav Havel (primo presidente non comunista ceco e promotore della Rivoluzione di velluto, ndr), la minoranza rom, l’Unione europea. Si dice che è tutta colpa loro se la situazione è questa. Non sono, quindi, solo le ong ad essere sotto tiro.

Certo, sono finiti i tempi d’oro degli anni Ottanta e Novanta, quando non veniva chiesto conto di nulla a chi faceva il lavoro umanitario. È anche vero che ci sono anche tra i grandi attori alcuni che perdono credibilità ed efficacia, che dimenticano di lavorare nel settore non profit e si danno stipendi da manager di grandi aziende. È un po’ la stessa crisi che sta vivendo la democrazia. Non credo ci sia nulla di catastrofico in questa situazione, ma credo che vada affrontata. Il lato positivo, per le ong, è che comunque ci sono sempre più persone che le sostengono, anche con piccole donazioni.

Perché lo spazio per un intervento umanitario si è così ridotto?

Non so esattamente per quale motivo. Di certo negli ultimi 15 anni lo spazio per l’imparzialità e la neutralità all’interno dei conflitti si è molto rimpicciolito. Una volta ci spostavamo con mezzi con loghi visibili per farci riconoscere, oggi dobbiamo nasconderci ed essere invisibili, come dei locali.

Credo che in parte sia per il ruolo sempre più crescente dei militari nelle operazioni di pace e umanitarie. Penso a quanto accaduto in Iraq o in Afghanistan. In più, i conflitti non sono mai stati così complicati. Da quando ho cominciato a lavorare nel ’93 in Bosnia, in fondo, non vedo molti cambiamenti nel modo di fare l’operatore umanitario.

Però credo ci possa essere un qualche cambiamento culturale, legato anche alle tecnologia applicata alla comunicazione. Oggi con internet e i social network è facile costruire una campagna d’odio. Non lo era invece 15 o 25 anni fa. Fake news ed hate speech alimentano l’odio e rendono semplice dare le colpe.

Anche la vostra organizzazione è stata costretta a lasciare Donetsk, in Ucraina, dove stavate lavorando. È accaduto lo scorso anno.

Quella però è una situazione totalmente diversa. Nel nostro caso credo che sia già stato un miracolo restare a dare una mano per due anni. Tutti gli operatori più grossi sono stati cacciati, compresi la Croce rossa internazionale e Medici senza frontiere. Con tutto il rispetto, era difficile pensare che quello locale fosse un partner governativo credibile. Sono sotto l’influenza di Mosca e probabilmente la decisione di cacciarci è stata presa là.

In Repubblica Ceca ci sono appena state le elezioni politiche. Ha vinto il partito Ano, del leader populista ed euroscettico Andrej Babis. La Repubblica Ceca fa parte di Visegrad, insieme a Polonia, Slovacchia e Ungheria, il gruppo europeo più ostile alla politica delle quote in tema di immigrazione e alla revisione delle Regolamento di Dublino, il trattato che prevede che oggi un profugo debba essere accolto e debba chiedere asilo nel primo Paese di approdo. Che effetti prevede con l’elezione di Babis in questi ambiti, in prospettiva europea?

Prima di tutto Babis ha vinto le elezioni ma non ha una maggioranza. Per semplificare: ora dovrà scegliere se fare un governo di minoranza, oppure creare una coalizione ampia. Vedremo, ci vorrà del tempo. Sia sul piano interno, sia sul piano europeo, non credo cambierà molto in tema di immigrazione. Ad oggi la Repubblica Ceca è uno dei Paesi con politiche più ostili nei confronti dei migranti, a tal punto che è difficile che possa peggiorare. Non mi aspetto nemmeno che migliorino.

Sul piano europeo, per il sistema delle quote credo sia difficile farlo passare: se un migrante se ne vuole andare da un Paese è difficile costringerlo a restare. La Repubblica Ceca, ad esempio, è una Paese dove in pochissimi chiedono asilo. Probabilmente è a causa della lingua, della situazione economica e della reputazione di Paese poco amichevole con gli immigrati. Sul Regolamento Dublino, invece, è chiaro che va riformato. Esiste su carta ma de facto è superato. Vedremo come cambierà.

L’Unione europea sta affrontando il tema immigrazione trattando con Paesi di origine e di transito. Sembra, però, che il tema del rispetto dei diritti umani non sia nell’agenda politica di Bruxelles. Cosa ne pensa? Crede che alla lunga l’Europa possa perdere credibilità?

Credo che l’Ue debba investire molti più soldi per migliorare le condizioni dei migranti, non solo dei profughi, che si trovano in Paesi con i quali ha accordi in essere, come ad esempio la Turchia. È facile criticare i politici che non fanno abbastanza, ma se si guarda a esempi come la cancelliera tedesca Angela Merkel si vede lo sforzo per fare degli accordi con i Paesi di origine.

C’è un fatto, ossia che l’Europa non può accettare milioni di persone perché la spinta migratoria ha già contribuito al disfacimento delle politiche europee e al rafforzarsi di movimenti di ispirazione nazionalista e in alcuni casi fascista. Questa è la risposta giusta? Non lo so. Al momento mi sembra che il trattato con la Turchia non sia necessario, ma lo capisco: è facile dire da fuori che è totalmente sbagliato, ma è difficile trovare una risposta alternativa. Non saprei cosa dire o cosa fare se fossi un politico, in effetti.

È un fatto che l’Occidente è scosso da una difficile transizione che sta mettendo in crisi le vecchie socialdemocrazie e forse strumenti come il trattato sono mezzi pragmatici per calmare gli animi. Ma in ogni caso bisogna migliorare di innumerevoli volte le condizioni di chi sta nei campi profughi, trovare regole sui numeri dei migranti che possono arrivare e aprire vie legali per chi scappa da guerre e da situazioni in cui è violata la Convenzione di Ginevra. È un percorso difficile, ma è quello per il futuro.

L’Europa sta appunto attraversando una delicata fase di transizione, dove sembrano vincere paura e populismo. Sembra che i movimenti pro-democrazia degli anni Ottanta abbiano lasciato il posto a giovani arrabbiati, che si riconoscono nei valori identitari di chi vuole alzare i muri e chiudere l’Europa. Lei che ha vissuto la stagione dei grandi cambiamenti in Europa, ha dei rimpianti? Perché secondo lei c’è questa forma di regressione?

Posso parlare per i Paesi ex sovietici. Di certo, pensavamo che la transizione sarebbe stata più veloce. Invece le condizioni nel blocco ex sovietico – a parte poche eccezioni – sono peggiorate. Il comunismo ha distrutto anche la capacità delle persone di credere in se stesse e costruire insieme. In più, si vedono molto i gruppi di estrema destra, neonazisti, antieuropei. Anche il resto dell’Europa ha i suoi piantagrane, ma almeno ci sono dei difensori dei diritti, dei portavoce di altri valori che li bilanciano. In Occidente ci sono delle voci critiche, c’è chi si contrappone. Non da noi, in Europa centrale.

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