Profughi ambientali in cerca di protezione
Le vittime dei disastri naturali sono in aumento. Scappano da terremoti, siccità, inondazioni. Ma per i profughi ambientali il diritto internazionale non prevede il diritto alla protezione come per i rifugiati. Gli avvocati dell'Associazione studi giuridici per l'immigrazione fanno il punto della situazione
L’ultimo episodio è quello del terremoto in Messico, che la notte scorsa ha devastato il Paese e causato la morte di un numero ancora imprecisato di persone. E le ultime settimane, purtroppo, sono state fin troppo segnate anche da altre catastrofi naturali. Dall’uragano Irma, che si è abbattuto su Florida, Cuba e Caraibi provocando 37 morti. Alle alluvioni e frane che in India, Nepal e Bangladesh hanno colpito 41 milioni di persone, di cui 17 milioni di bambini, e causato 1.200 vittime, come denunciato da Save the Children.
Ebbene, questi disastri ambientali costringono tanti a fuggire, ad abbandonare la casa, il lavoro, la vita che conducevano. Milioni di persone, in costante aumento a causa anche dei cambiamenti climatici. Ma a cui il diritto internazionale non riconosce lo status di rifugiato, e dunque il diritto alla protezione.
I profughi ambientali e la Convezione di Ginevra
Sul termine da usare non sono tutti d’accordo. Spesso si parla delle vittime di questi eventi come di profughi ambientali, ma qualcuno li chiama migranti ambientali, o profughi climatici. Altri usano dire rifugiati climatici, anche se la definizione è criticata dalle organizzazioni delle Nazioni Unite.
La Convenzione di Ginevra del 1951, infatti, concede lo status di rifugiato solo a chi è perseguitato per razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche. Dell’ambiente e delle conseguenze del clima, come è noto, non c’è traccia.
Il filo rosso che lega guerre e cambiamento climatico
«La questione è particolarmente complicata per tanti motivi», dice Maurizio Cossa, avvocato che si occupa di immigrazione e diritti umani e membro dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi).
«Ci sono molte guerre nate da problemi ambientali, non ultima quella in Siria, che ha tra la sue cause principalmente il fatto che ha attraversato un lungo periodo di siccità legato ai cambiamenti climatici. Questi, infatti, incidono in modo proporzionalmente più pesante nella fascia più calda del Pianeta. Paradossalmente, i Paesi più sfortunati lo sono anche dal punto di vista climatico: i cambiamenti e la mancata possibilità di adattarsi penalizzano, in particolare, quegli stati che hanno scarse strutture statali ed economiche».
Sulla Siria, in particolare, Cossa è convinto che «la dittatura e il governo non hanno saputo gestire la situazione e ciò ha determinato spostamenti interni e crisi locale. Le popolazioni che si mescolano per costrizione portano con sé dei problemi e, in questo caso, hanno creato una delle condizioni, certo non l’unica, della crisi siriana».
Profughi ambientali e sfollati interni
Cossa mette l’accento anche su una particolarità dei “profughi ambientali”: il fatto che le prime migrazioni avvengono all’interno dei confini nazionali. Una tendenza, questa, che vale di solito anche per i profughi in generale, come dimostra la mappa interattiva creata dalla Carnegie Mellon University di Pittsburgh.
«Questa gente si sposta in altre zone interne, dove c’è già un grado di povertà. Una situazione simile, se mal gestita, porta a a incrementare il disagio, sia di chi ospita sia degli abitanti vicini, creando profonde tensioni e guerriglia. È solo allora che arriva la spinta a una migrazione più lontana, che, senz’ombra di dubbio, parte dai Paesi in cui la forma di governo prevalente è la dittatura. In un quadro simile, certo, si aggiungono anche i migranti economici e i rifugiati», commenta l’avvocato Cossa.
Ma se tra le cause delle migrazioni c’è anche il clima, perché questo aspetto non viene affrontato come meriterebbe? «Perché i problemi ambientali, tranne le catastrofi grandi con morti, sono catastrofi silenti», dice il legale.
Cossa spiega che «il peggioramento di un ambiente agricolo è un processo lentissimo, pertanto non è facilmente percepibile. C’è poi da dire che gli Stati d’origine dei migranti non hanno particolare interesse a enfatizzare la crisi nel territorio, perché per loro sarebbe ammettere una situazione di debolezza».
Profughi climatici e profughi ambientali
Se da un lato non c’è uniformità nel definire chi migra a seguito di disastri ambientali, dall’altro ci sono delle differenze da fare. Secondo l’avvocato di Asgi, esistono i «profughi ambientali che possono essere costretti a lasciare la loro terra per problemi ambientali a insorgenza rapida, ossia frane, eruzioni, inondazioni, terremoti, i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. O per problemi a insorgenza lenta, come siccità, desertificazione, salinizzazione. E accanto a questi possiamo parlare di profughi climatici quando determinati eventi ambientali sono causati dai cambiamenti generati dall’uomo, dall’industrializzazione forzata e tutto quello che ne consegue».
Il modello occidentale, alla ricerca di compratori sempre diversi, tende a schiacciare chi è meno sviluppato e ha conseguenze dal punto di vista ambientale se una zona che era produttiva finisce con non l’esserlo più per via dell’accaparramento forzato di terreni (il cosiddetto land grabbing), ma anche se la desertificazione è appunto avvenuta a causa dell’uomo.
Il fattore umano dietro alle migrazioni
I problemi climatici creati dai Paesi più industrializzati hanno conseguenze maggiori nei Paesi che subiscono questo processo. Cossa dice di essere «certo che molte migrazioni economiche hanno una prima causa climatica creata dall’uomo».
L’avvocato fa l’esempio del Ghana e delle sue coltivazioni di pomodoro: «Era una piccola industria fiorente, fino a che non è stata radicalmente cambiata dai pelati sottocosto italiani ed europei venduti a un prezzo più basso. Una prelibatezza straniera che, supportata dai notevoli contributi europei, ha soppiantato quella locale e portato molta gente a restare senza lavoro. Quella stessa gente che, magari, è salita su un barcone per arrivare in Italia dove non è raro sia finita a raccogliere i pomodori».
Riconoscere il fattore climatico potrebbe volere dire, forse, intervenire ancor prima della “fuga” e provare a risolvere il problema prima che si scateni una guerra o una persecuzione. «A mio avviso», continua Cossa, «se l’origine di determinate migrazioni ha a che fare con l’uomo, tale specificità ambientale andrebbe considerata».
L’idea è ormai abbastanza diffusa tra gli “addetti ai lavori”. Qualche mese fa, anche l’allora segretario generale dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), Lamberto Zannier, aveva dichiarato in un’intervista a Osservatorio Diritti: «Purtroppo c’è una sottovalutazione dell’impatto del fenomeno ambientale sulle migrazioni e sui flussi dei rifugiati. Per questo credo che sarebbe opportuno riconoscere l’esistenza di questo problema e accordare protezione anche ai rifugiati climatici».
Da parte dell’avvocato Cossa, però, non c’è particolare ottimismo in merito:
«Il fattore climatico è ancora contestato dalle multinazionali perché mette in discussione un modello economico ormai consolidato. E, d’altra parte, il presidente degli Stati Uniti, Trump, non sta andando in una direzione diversa».
Mancano strumenti giuridici adeguati
Le varie carte esistenti nel diritto internazionale non sono ancora in grado di affrontare questa situazione. Oltre alla Convenzione di Ginevra, infatti, ci sono solo alcune convenzioni, come i Principi guida dell’Onu sugli sfollati interni del 1998, la Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969 e la Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati che risale al 1984. In tutti questi documenti si affronta il problema dei disastri ambientali e climatici, «ma non si dà luogo a disposizioni internazionali», precisa Cossa.
Il “motivo ambientale” e l’esempio del Bangladesh
«Le migrazioni per motivi ambientali da una parte sono sempre esistite, ma è molto difficile rilevare che sia questo il motivo di una migrazione», dice l’avvocata Anna Brambilla, membro di Asgi che si è occupata diverse volte di migrazioni di questo tipo e che di recente ne ha parlato sulla rivista Diritto, immigrazione e cittadinanza.
«Per esempio, in Italia, assistiamo alla presenza di molte persone che emigrano dal Bangladesh, fortemente interessato dal cambiamento climatico, una catena migratoria che è andata notevolmente aumentando negli ultimi anni».
Stando infatti ai dati diffusi dal Viminale del settembre 2017, i bengalesi sono il terzo gruppo più numeroso in Italia sulla rotta del Mediterraneo, mentre fino a qualche anno fa non comparivano tra i primi dieci.
Ed «è molto facile che dietro a una migrazione di questo tipo ci sia un motivo ambientale perché in Bangladesh sono molte le zone vicine a fiumi che sono esondati e hanno allegato casa e campi», racconta Brambilla, che assiste legalmente diversi profughi climatici.
L’avvocata sottolinea poi che «anche per risalire a una causa di questo tipo devi scavare, perché anche da parte di chi è stato colpito non c’è la consapevolezza di un evento ambientale che viene considerato quasi normale».
La legge italiana in materia di asilo e ambiente
Per quanto riguarda l’Italia, racconta sempre l’avvocata, da parte della Commissione Nazionale per il diritto di asilo c’è stata qualche apertura con il riconoscimento di alcuni casi di inondazioni con perdita della casa e di tutti i beni come una forma di vulnerabilità che richiede protezione.
«Al momento sto facendo ricorso in appello per un cittadino bengalese che, per via di una inondazione, si è trovato senza terreno e non ha potuto pagare il debito contratto per acquistare le sementi. Questo ha portato a un accaparramento violento del terreno con, purtroppo, l’uccisione del padre e del fratello. Questo è un altro esempio di come la motivazione è solo apparentemente economica», dice ancora Brambilla.
Battaglia legale per la definizione del diritto dei migranti