Lotta alle mutilazioni genitali femminili
Ogni anni 3 milioni di bambine sono costrette a subire mutilazioni genitali. Una storia che ha già colpito 125 milioni di donne nel mondo. Una pratica che viola i diritti umani. Eppure il primo passo è ancora quello più difficile da fare: ammettere di essere una «vittima».
Cidimna è arrivata in Italia nell’estate 2015 a bordo di un barcone partito dalla Libia stringendo tra le braccia la sua bambina. Nel settembre 2015 ha raccontato la sua storia davanti alla commissione per l’asilo di Perugia: le violenze subite in Nigeria e poi il Libia, dove era fuggita proprio per trovare un lavoro e rifarsi una vita. Ha ottenuto così la protezione umanitaria e ha iniziato il suo percorso di integrazione in Italia all’interno di un centro di accoglienza gestito da Cidis Onlus.
Ma c’è un elemento che la giovane donna aveva taciuto a tutti: quando era una bambina – così piccola che nemmeno ha ricordo di quel momento – ha subito una mutilazione genitale. Una pratica comune, quella della mutilazione genitale femminile, tra le donne di alcune comunità nigeriane, anche cristiane, come Cidimna.
«Lo abbiamo scoperto quasi per caso. Cidimna non ci aveva detto di aver subito questa pratica. Si tratta di un argomento molto privato, per lei come per tutte le donne non è facile parlare di temi così delicati con degli sconosciuti. Ma dopo un po’ di tempo si costruisce un rapporto di fiducia. Che permette di raccogliere queste storie», racconta Irene Masci di Cidis.
Il primo passo: capire di essere «vittima» di mutilazione
È stato attivato un percorso che, oltre al coinvolgimento dei legali, ha visto la presenza di medici e di due antropologhe del Centro Umbro di riferimento per lo studio e la prevenzione delle Mutilazioni Genitali Femminili. L’obiettivo di questi incontri non è semplicemente quello di accertare, da un punto di vista medico, il danno subito dalla giovane donna. Ma soprattutto far crescere in lei la consapevolezza del fatto di essere vittima.
Una «superstite» alle mutilazioni genitali, come Irene Masci definisce queste donne. «Evitiamo sempre di dare un giudizio, ma lavoriamo per far capire loro che anche nei loro Paesi di origine questa pratica è vietata, sbagliata e pericolosa», puntualizza la referente del Cidis.
«La consapevolezza si costruisce con il dialogo. In questo caso è stato necessario un lungo percorso per inquadrare la circoncisione come una questione problematica», spiegano le antropologhe Maya Pellicciari e Sabrina Flamini. Al termine di questi incontri, Cidimna ha preso una decisione: difendere la figlia affinché non subisca quello che ha dovuto passare lei, seppur inconsapevolmente.
Cidimna sapeva che, in caso di ritorno in Nigeria, i genitori e tutta la sua comunità avrebbero fatto grandi pressioni su di lei per imporle questa decisione. «Non voglio che questo venga fatto alla mia bambina», ha detto alle antropologhe. E così la sua richiesta di protezione alla fine ha dato esito positivo e la donna ha ottenuto lo status di rifugiato.
Unione europea contro mutilazioni genitali femminili
«Da molti anni l’Unione europea si è espressa positivamente in materia, riconoscendo alle donne che hanno subito una mutilazione genitale la possibilità di ottenere protezione», spiega l’avvocato Francesco Di Pietro, socio dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che da anni si dedica al tema delle mutilazioni genitali femminili.
Foto Unamid (via Flickr)
Una risoluzione del Parlamento europeo del 2 settembre 2001, dedicata proprio al contrasto delle mutilazioni genitali femminili, auspica che il Consiglio e la Commissione adottino misure per la concessione di permessi di soggiorno e la protezione delle vittime attraverso il riconoscimento del diritto di asilo.
«A livello giurisprudenziale questa è la quinta pronuncia favorevole a donne vittima di mutilazioni genitali. Tuttavia i riconoscimenti di status sono molto inferiori rispetto alle effettive dimensioni del fenomeno», dice ancora Francesco Di Pietro.
La Giornata internazionale contro le mutilazioni genitali femminili si celebra ogni anno il 6 febbraio.
Mgf e richiedenti asilo: difficile sapere quante sono
Avere una stima attendibile di quante siano le donne richiedenti asilo vittime di mutilazioni genitali è molto difficile: «Nei nostri centri ci sono una cinquantina di donne, almeno 30 hanno subito una qualche forma di mutilazione genitale. Vengono soprattutto da Nigeria e Sierra Leone, sono cattoliche e musulmane», spiega Irene Masci del Cidis.
Difficile anche avere un’idea precisa di quante siano le donne migranti che riescono a ottenere protezione internazionale per questo motivo. Di Pietro dice che «è difficile per le donne fare emergere questa parte del loro vissuto. Un dissidente politico sa di essere perseguitato e perché, una donna che si trova in questa condizione non ha la consapevolezza di essere vittima, perché il taglio viene vissuto come qualcosa di normale, non come una violazione di diritti». Costruire la consapevolezza richiede un lavoro lungo e paziente.
«A volte le donne provenienti da Paesi a tradizione escissoria percepiscono il taglio come una prassi comune. Ci siamo trovate davanti a donne stupite dal fatto che noi non fossimo circoncise. In altri casi le donne ce ne parlano come di una pratica vecchia, una tradizione ingombrante, cui però è difficile sottrarsi», spiegano le antropologhe Maya Pellicciari e Sabrina Flamini.
Servono quindi un ascolto attento, anche ai dettagli, e operatori formati su questo tema all’interno delle strutture di accoglienza: «Solo così è possibile aiutare queste donne a far emergere il loro vissuto e, anche con il supporto di relazioni mediche, portarlo davanti alla commissione per l’asilo», conclude l’avvocato Di Pietro.
Oms: cosa sono le mutilazioni genitali femminili
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisce le mutilazioni genitali femminili una «violazione dei diritti umani» e puntualizza che si tratta di una procedura «che non ha effetti benefici sulla salute delle donne e delle bambine». Al contrario, rischiano di morire a seguito dell’intervento per infezioni, sepsi o dissanguate. Sono tante anche le conseguenze a lungo termine: dolori durante i rapporti sessuali, difficoltà durante la gravidanza e il parto, il rischio di sviluppare cisti.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha classificato le mutilazioni in quattro tipi differenti, in base alla gravità degli effetti. Si va dalla circoncisione, con l’asportazione della punta del clitoride, all’escissione, cioè l’asportazione completa del clitoride e delle piccole labbra, fino ad arrivare all’infibulazione, ossia l’asportazione delle grandi labbra e cucitura della vagina. Il quarto gruppo, infine, comprende una serie di mutilazioni di varia natura sui genitali femminili.
La mappa della violenza
Secondo l’Unicef, ogni anno circa tre milioni di bambine sotto i 15 anni sono costrette a subire questa pratica violenta e pericolosa. Complessivamente, si calcola che in tutto il mondo oggi vivano circa 125 milioni di donne che hanno subito il “taglio”.
La maggior parte vive in Africa: nel Corno d’Africa (Gibuti, Somalia, Somaliland, Eritrea), in Egitto e in Guinea l’incidenza del fenomeno è altissima, vicina o superiore al 90% della popolazione femminile.
E i numeri – anche per effetto dell’aumento demografico – sono destinati ad aumentare, malgrado l’impegno di attivisti e governi per contrastare il fenomeno. Secondo le stime delle Nazioni Unite, se i trend attuali continueranno, 86 milioni di ragazze nate tra il 2010 e il 2015 rischiano di subire una mutilazione genitale entro il 2030.