Tijuana, città di migranti e deportati
A Tijuana, in Messico, ci sono sempre più migranti. Arrivano da sud e da nord. La linea dura di Trump verso gli irregolari ha provocato un aumento di deportati dagli Usa. A loro si vanno ad aggiungere gli immigrati interni, quelli provenienti dal Centro America e ora anche da Haiti. Il muro in città esiste già: separa il territorio e le vite
da Tijuana, Messico
«Welcome to Tijuana» cantava Manu Chao nel ’98 raccontando una città dalle diverse anime, regno di prostitute, droga e migrazione. Tijuana è frontiera, il confine più attraversato al mondo, con una media giornaliera di 40 mila veicoli e 20 mila pedoni: lavoratori, studenti, consumatori transfrontalieri e americani in cerca di un po’ di divertimento pronti a sopportare file interminabili anche di due o tre ore per i controlli di ingresso negli Stati Uniti. Qui si passa, si va e a volte si rimane.
I flussi migratori
Alla corrente migratoria dei centroamericani che lasciano per motivi economici El Salvador, Honduras e Guatemala – zona conosciuta come il Triángulo Norte de Centroamérica (Tcna) – o scappano dalle violenze degli Stati messicani di Guerrero, Michoacán e Veracruz, si somma quella dei deportati che dal 2016 superano i 60 mila. E come se non bastasse sono arrivati a Tijuana anche i migranti haitiani. Circa 3 mila sono fermi in questa città perché lo scorso settembre gli Stati Uniti hanno revocato lo status di protezione temporanea (il Temporary Protected Status, o Tps) concesso dopo il terremoto del 2010.
In calo la migrazione verso gli Stati Uniti
Al contrario, nonostante la retorica antimigrante di Trump pre e post elettorale, in questo momento si registra il numero più basso di entrate irregolari dal Messico verso gli Usa. A dirlo è l’ultimo ultimo rapporto di Amnesty International, Enfrentando muros, che sottolinea che «nel 2016 le persone messicane che entravano irregolarmente negli Stati Uniti sono state superate da persone di nazionalità diversa, circa il 54% venivano classificate come “non messicani”». Dati che vengono confermati anche dalle dichiarazioni rilasciate a marzo 2017 da John Kelly, allora ministro della Sicurezza Nazionale e da luglio capo di gabinetto della Casa Bianca: «Il flusso di migranti irregolari segnalati alla frontiera tra Stati Uniti e Messico si è ridotto del 40% dall’elezione di Trump».
Le nuove regole di Trump e le deportazioni
Trump l’aveva promesso in campagna elettorale e lo hanno confermato poi le nuove regole contenute nel memorandum del dipartimento di Sicurezza nazionale che prevedono un allargamento delle possibilità di deportazione. A rischio sono quasi 11 milioni di persone che attualmente vivono negli Usa senza documenti regolari.
Con l’amministrazione Obama si è raggiunto il numero più alto di deportati, era prevista l’immediata espulsione dei migranti condannati per crimini gravi o di quelli che tentavano di passare il confine. Ora le nuove regole di Trump mettono a rischio deportazione tutti coloro ritenuti colpevoli di una violazione anche minima della legge sull’immigrazione o di reati amministrativi lievi come ad esempio una multa durante la guida.
«La rotta da sud a nord ora è cambiata, il 90% delle persone che ospitiamo in questo momento sono deportati».
Così parla Padre Patricio, direttore della Casa del migrante di Tijuana dei padri Scalabriniani, una delle più grandi che dal 2010 ha ospitato circa 250 mila persone.
«Io li chiamo “gli innocenti”- aggiunge – sono persone che non hanno commesso alcun crimine, semplicemente non hanno i documenti in regola. Le deportazioni invece sono “crimini della giustizia umana”».
Chi sono i migranti irregolari
Per il presidente sono «criminali», «stupratori», «bad hombres» (uomini cattivi), peggio «animali a cui piace torturare le donne». «I migranti irregolari – spiega Enrique Morones, fondatore dell’associazione di volontariato Border Angels che ha sede a San Diego – sono persone meno propense al crimine, non vogliono attirare l’attenzione perché irregolari e soprattutto sono uno stimolo per l’economia. Pagano infatti miliardi di dollari in tasse, perché anche se non possiedono un Social security number (il codice assegnato a cittadini americati, residenti permanenti e lavoratori temporanei, ndr), hanno un Taxpayer identification number sul quale versano le tasse annualmente».
Al bando le “città santuario”
Sempre il presidente Trump, nell’ultimo incontro in Ohio, ha dichiarato che non ci sarà più spazio per i Comuni che proteggono gli irregolari. «Non saranno più protetti e la mia amministrazione lancerà una campagna nazionale contro le città santuario», ha detto Trump. In tutto sono circa 200 città, tra le più grandi New York, Los Angeles, San Francisco, Chicago, Seattle, ma anche Washington, Detroit e Dallas.
Si tratta di una sorta di “rifugio sicuro” dove le forze dell’ordine locali non collaborano con quelle federali e con l’autorità per l’immigrazione ed evitano di segnalare i cittadini privi di documenti in regola e quindi a rischio deportazione. A seguire questa linea, già nel maggio 2017, il governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, che firmò una legge proprio per eliminarle.
Chi sono i deportati in Messico
I deportati sono uomini e donne che si sono costruiti una vita negli Stati Uniti, hanno mogli, mariti e figli, un lavoro e spesso parlano unicamente inglese. Solo per il fatto di essere irregolari vengono spediti a Tijuana.
Il Messico è un Paese a loro sconosciuto, dove non hanno più radici, alcun familiare. E così a Tijuana si trovano a vivere in un limbo. Non sono americani perché irregolari negli Stati Uniti, non sono messicani poiché all’arrivo non hanno alcun documento.
«Nel nostro Centro – spiega Parte Patricio – oltre ad accoglierli cerchiamo di aiutarli a reintegrarsi nella società messicana. Aiutarli a recuperare almeno l’atto di nascita, i documenti e magari trovare un lavoro».
Alcuni hanno vissuto anche 40 anni negli Stati uniti e si ritrovano increduli in una città completamente diversa dalle metropoli americane, con un tasso di violenza altissimo e con bande criminali che si approfittano dei più vulnerabili, dei migranti e di chi per vivere e mangiare è disposto anche a delinquere o a prostituirsi. Molti sono arrivati negli Stati Uniti con l’ondata migratoria degli anni ’90, si sono costruiti una famiglia e hanno avuto dei figli che oggi sono di diritto cittadini americani.
I figli americani degli irregolari
Sono circa 4 milioni i minori che potrebbero avere un destino incerto perché nati da genitori clandestini. Se venissero deportati questi ragazzi potrebbero rischiare di rimanere soli negli Stati Uniti. Alcune madri scelgono di portare i figli con loro in Messico, ma altre, date le precarie condizioni economiche, sono costrette a lasciare i figli negli Stati Uniti a ex mariti che in molti casi negano loro il diritto di rivederli. In altri casi i bambini “americani” figli di deportati finiscono persino in affidamento.
Tra i deportati anche i veterani di guerra
Tra i deportati a Tijuana si incontrano anche i veterani di guerra.
«Per anni abbiamo difeso la nostra patria, gli Stati Uniti d’America, e adesso abbiamo diritto a rientraci, non solo da morti».
Queste le parole di un ex soldato reduce dalla guerra in Iraq, davanti alla bandiera a stelle e strisce. Traditi da quella patria che hanno difeso a rischio della propria vita. «Noi siamo americani e vogliamo tornare a casa nel nostro paese», aggiunge con orgoglio. Tijuana per i deportati è l’avamposto degli Stati Uniti e in tanti sperano di poter varcare “la linea” anche illegalmente, scavalcando il muro per ricongiungersi con la famiglia in America.
Il muro di Trump esiste già
Sono 1,6 miliardi di dollari quelli messi a bilancio nel 2018 dal presidente Trump per la costruzione del muro con il Messico. «Il muro lo costruiremo», ha ribadito recentemente a Youngstown, in Ohio. Ma il muro di Trump esiste già.
L’opera è iniziata con il presidente Bill Clinton nel 1994 ed è proseguita con l’approvazione del Secure Fence Act, legge firmata dal presidente George W. Bush. Il confine tra Stati Uniti e Messico è lungo poco più di 3 mila km e almeno 1.000 sono già dotati di barriere di metallo alte anche fino a 5 metri che impediscono la circolazione dei mezzi e delle persone, soprattutto nelle zone urbane dove il confine è maggiormente vigilato con droni e sofisticate tecnologie.
Le famiglie separate dal muro di Tijuana
Il muro separa territori e confini. Ma ha anche spezzato intere famiglie. A ridosso della spiaggia – a Playa de Tijuana – al cosiddetto Parco dell’Amicizia (Friendship Park) il muro paradossalmente diventa anche l’unico luogo accessibile dove uomini, donne, bambini e anziani possono parlarsi e vedersi attraverso le fessure e ritrovare una qualche forma di intimità.
Ogni domenica si incontrano in prossimità della spiaggia davanti alle grate di ferro, che si “attraversano” solo con il dito mignolo. È questo l’unico contatto fisico concesso. Si sistemano comodi, da entrambi i lati del muro. A volte portano con sé delle sedie o si mettono seduti per terra con dei teli, riparandosi dal sole con gli ombrelli.
«Non incontro mia mamma da 20 anni – racconta Jannet, immigrata a San Diego, che ogni domenica va al muro per vedere sua madre Rosario – solo una volta sono riuscita a riabbracciarla quando qui hanno aperto la porta»
Ogni anno al Friendship Park, per la festa dei bambini, le guardie di frontiera concedono l’apertura di una porta, chiamata Porta della speranza, e qui le famiglie possono così abbracciarsi per qualche minuto. «Venire qui è l’unica possibilità che abbiamo per vederci» aggiunge Jannet.
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Questo articolo è pubblicato in collaborazione con Opera Mundi, un importante sito di informazione brasiliano con una forte vocazione agli esteri “senza perdere di vista una prospettiva brasiliana e latino-americana dei fatti”.