L’Africa secondo i suoi artisti
Al Pac di Milano fino all'11 settembre è in mostra "Africa. Raccontare un mondo". Piccolo viaggio tra gli sguardi degli artisti che raccontano speranze e ferite delle loro terre di origine. Barthélémy Togo, Romualdo Hazoumé, Kudzanai Chiurai, Pieter Hugo e gli altri protagonisti
Cosa vede un artista contemporaneo quando guarda l’Africa? O meglio, cosa vede un artista africano quando osserva la sua Terra? Sembra rispondere a questa domanda la mostra Africa. Raccontare un mondo, al Pac di Milano dal 27 giugno all’11 settembre 2017.
Dei 33 artisti africani esposti, alcuni scelgono di raccontare il Dopo indipendenza, ossia com’è cambiato il proprio universo (non solo) culturale con la decolonizzazione; altri, i più giovani, indagano la difficile costruzione della propria identità contemporanea, tra Occidente e africanismi. Altri ancora, i cosiddetti artisti engagé, scelgono di raccontare le guerre e i genocidi, i crimini ambientali, la povertà, la corruzione politica, i diritti umani violati.
Africa. Raccontare un mondo affronta le questioni essenziali del continente – politiche, economiche, religiose e di genere – senza prescindere dal racconto delle violazioni più gravi che ancora oggi vengono commesse. Come i recenti genocidi in Burundi, Rwanda, Sudan; il viaggio delle grandi masse di rifugiati provenienti dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Sudan; la piaga dei bambini soldato in Mozambico, Angola, Liberia, Sierra Leone; gli abusi sessuali, gli assalti alla libertà di culto e alle libertà civili. Lo sguardo è quello di artisti appartenenti a diverse generazioni, che qualche volta vivono in Africa, altre invece la guardano da lontano, con un pizzico di rimpianto e nostalgia.
Barthélémy Togo, la via dell’esilio
Camminando fra le sale della mostra, curata da Adelina von Fürstenberg e Ginevra Bria, l’opera che colpisce di più, per dimensioni e temi, è Road to Exile (2015) di Barthélémy Toguo. Classe 1967, originario del Camerun, l’artista lavora tra Parigi, Düsseldorf e Bandjoun. La sua arte indaga il concetto di straniero, di “immigrato”. L’opera Road to Exile è un’imponente installazione (220 x 260 x 135 cm), costituita da una barca di legno, colma di cuscini di stoffa colorata, che galleggia su un “mare” di bottiglie vuote. La “via dell’esilio” realizzata da Toguo affronta le differenze, sottili ma sostanziali, tra una fuga e l’inizio di un’altra vita. «Un’onda precaria, come fatta di bottiglie vuote», la descrive poeticamente l’artista.
Le maschere di Romuald Hazoumé
Di tutt’altro tipo sono le opere di Romuald Hazoumé. Nato nel 1962 a Porto Novo, in Benin, dove a oggi vive e lavora, Hazoumé raccoglie oggetti di scarto con i quali realizza maschere tribali, ispirate al culto esoterico Vudù (di cui il Benin è considerato la culla). Queste maschere sono costruite utilizzando recipienti di plastica, taniche di benzina, strisce di tessuto, indumenti e altri rifiuti trovati per strada e sulla spiaggia. Tra passato e presente, in un territorio intriso di antiche tradizioni e contaminato da “rifiuti” inquinanti, si colloca la sua arte. Lo stesso Hazoumé ammette: «Restituisco all’Occidente ciò che gli appartiene, che significa affermare il rifiuto di una società del consumismo che invade i nostri territori ogni giorno».
Le rivendicazioni di Kudzanai Chiurai
Le fotografie di Kudzanai Chiurai attirano parecchio l’attenzione. Nato nel 1981 in Zimbabwe, Chiurai nella sua carriera si è cimentato con diverse tecniche artistiche, sempre però affrontando le questioni sociali, politiche e culturali dello Zimbabwe. Nelle sale del Pac espone la serie di fotografie Revelations, iniziata nel 2011, che ritraggono l’Africa «così come viene immaginata in Occidente». Viene ritratta la guerra, la violenza, gli effetti della globalizzazione: sono ritratti esplici, crudeli ma resi attraverso uno stile patinato, da rivista di moda, che ricorda quello estremo e un po’ kitsch di David LaChapelle. Kudzanai Chiurai vuole trasmettere la distanza che esiste tra i problemi dell’Africa e come questi arrivano, e dunque vengono percepiti, in Occidente: come immagini “esotiche”, grottesche, di poca autenticità.
Pieter Hugo, quello che resta del genocidio
Anche quello del sudafricano Pieter Hugo, classe 1976, è un lavoro fotografico. Ma di tutt’altra specie. Il ciclo esposto a Milano appartiene alla serie Rwanda: Vestiges of Genocide: queste fotografie rendono conto della tragica eredità del genocidio del Rwanda del 1994. L’idea è nata nel 2004, dieci anni dopo la fine del genocidio, quando Hugo ha notato in un articolo sul Rwanda la foto dell’altare di una chiesa, su cui faceva bella mostra un teschio umano. «Mi sono domandato: “Perchè nessuno ha ancora ripulito quella chiesa dai resti umani?”. Ho capito che il paesaggio in cui si sono verificate queste atrocità è coinvolto nella storia».
Pieter Hugo, allora, ha deciso di ripercorrere i luoghi della guerra e ha scattato fotografie inquietanti che documentano gli orrori del conflitto e ciò che è rimasto sul territorio dopo il genocidio: teschi, ossa, stracci che un tempo erano indumenti, scarpe e tombe aperte.
Nessuna delle opere in mostra è particolarmente semplice da assorbire. Nè quelle citate, la cui poetica e intenzione è ben chiara; né le opere più ermetiche, come la video-installazione di Gabrielle Goliath, che parla della violenza sulle donne, o manifesti politici come quello di Omar Ba, che cita Il quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. La mostra Africa. Raccontare un mondo è un’esperienza che aiuta non solo a ottenere un nuovo punto di vista, culturale e artistico, ma anche una chiara percezione delle ferite ancora aperte nel continente africano.