Congo, indigeni bayaka vittime dei ranger
Survival International accusa l'organizzazione Usa di tutela della natura Wildlife Conservation Society di sostenere squadre anti-bracconaggio che sarebbero responsabili di pestaggi, violenze e minacce ai danni delle tribù bayaka in un parco nazionale in Congo. Sullo sfondo un accordo con società di taglialegna
Picchiati e minacciati dalle squadre anti-bracconaggio che operano nei parchi naturali e allontanati dalle loro terre ancestrali. Survival International denuncia la violazione dei diritti delle popolazioni bayaka, nel nord del Congo. Il movimento mondiale per la difesa dei popoli indigeni punta il dito contro la Wildlife Conservation Society (Wcs), organizzazione americana legata allo zoo del Bronx di New York che ha contribuito alla nascita del parco nazionale Nouabale Ndoki, nel paese africano, e che oggi ne gestisce e sostiene le attività.
Come scrive la Wcs sul suo sito, il parco è stato creato nel 1993 e copre un’area di più di 4.000 metri quadrati dove vivono elefanti, scimpanzé e gorilla. La riserva naturale viene amministrata in collaborazione con il governo congolese e viene descritta come un esempio di foresta intatta e disabitata, circondata da un’area scarsamente popolata.
Secondo la Wcs, la natura inviolata del parco è minacciata da attività umane illegali quali: l’uccisione di elefanti per il traffico di avorio e la caccia agli animali selvatici, per la sussistenza o la vendita nei mercati. Come emerge dalla mappa interattiva realizzata dal ministero dell’Economia forestale e dello Sviluppo rurale congolese, il parco è circondato da terreni dati in concessione a compagnie di taglio del legname.
Squadre anti-bracconaggio finanziate dalla Wcs
Survival ha documentato diversi casi di pestaggi, violenze e minacce da parte delle squadre anti-bracconaggio, raccogliendo le testimonianze dei membri delle tribù bayaka che vivono ai confini del parco. Le guardie sono dipendenti statali, ma «esistono grazie al supporto finanziario, logistico e tecnico fornito dalla Wcs», spiega a Osservatorio Diritti un ricercatore di Survival che si è recato in missione in Congo e che chiede l’anonimato.
La campagna della Wcs “96 Elefanti“, per esempio, si propone di sostenere proprio i ranger del parco nazionale congolese, aumentando i pattugliamenti delle squadre anti-bracconaggio fino a coprire l’85% della superficie. Tra il 2013 e il 2015, secondo i dati dell’organizzazione statunitense, gli episodi di caccia illegale nel parco sarebbero diminuiti di un terzo rispetto agli anni precedenti.
In alcuni casi le guardie del parco sono state condannate per traffici illeciti di selvaggina e avorio. Un rapporto del 2011 del Progetto per l’applicazione della legge sulla fauna (Palf) denuncia l’arresto per complicità nel traffico d’avorio di quattro guardie, che operavano nella zona periferica della riserva. Nell’aprile di quest’anno un giornale locale ha pubblicato la notizia della condanna di una ex guardia ecologica del parco, per commercio illecito di zanne d’elefante. L’uomo era stato licenziato nel 2016 perché trovato in possesso di specie protette.
Gli accordi tra la Wcs e le compagnie del legname
Il sostegno alle squadre anti-bracconaggio non arriva solo dalla Wcs, ma anche dalle partnership che l’organizzazione ha attivato con le compagnie di taglio del legno. Survival International denuncia nello specifico due accordi che Wcs ha firmato con compagnie del legname: la Congolaise Industrielle du Bois (Cib) e la Industrielle Forestiere de Ouesso (Ifo). Si tratta di concessioni adiacenti al parco nazionale Nouabale Ndoki che, nelle intenzioni della Wildlife Conservation Society, hanno la funzione di proteggere la riserva dalla presenza umana, dalla caccia e dalle attività correlate al taglio degli alberi.
«Le guardie vengono equipaggiate dalla Cib e la Wcs si occupa di fornire sostegno logistico e tecnico», spiega il ricercatore di Survival. Lo stesso avviene con l’Ifo, che fornisce i materiali, lasciando il supporto operativo all’organizzazione per la conservazione. Come scrive Wcs sul suo sito, la partnership punta a combattere l’aumento della caccia e del commercio della cosiddetta “bushmeat”, la carne degli animali della foresta, e il traffico illecito di avorio.
Gli accordi con le due compagnie non prevedono una politica di “caccia zero”, come viene definita dalla stessa Wcs, ma un sistema di gestione sostenibile delle risorse destinate ai popoli indigeni, a cui è riconosciuta la possibilità di cacciare nella foresta. Un diritto che, secondo Survival International, la Wildlife Conservation Society sostiene sulla carta ma non rispetta:
«I bayaka vengono trattati come bracconieri dalle guardie, distogliendo l’attenzione dalle vere cause della distruzione ambientale: le compagnie del legname e la corruzione. Le aziende del legno non hanno chiesto il consenso ai popoli indigeni, pur operando nei loro territori. E tagliando gli alberi aprono delle vere e proprie strade, che favoriscono l’ingresso dei bracconieri e l’aumento della criminalità», dice a Osservatorio Diritti Fiore Longo, ricercatrice di Survival.
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I diritti violati dei popoli indigeni
«Alle popolazioni non è stato chiesto il consenso previo, libero e informato al momento della creazione del parco». Così Fiore Longo spiega quali sono le violazioni dei diritti umani nei confronti dei bayaka in Congo. E aggiunge: «Vengono picchiati e molestati».
La molestia crea paura tra i membri delle tribù e secondo Fiore Longo difficilmente si può superare: «Temono di entrare nella foresta, di essere presi, di perdere i loro pochi beni materiali, che vengono bruciati dalle guardie».
La ricercatrice di Survival parla di «sfratto psicologico» quando i membri delle tribù, a cui è permesso l’ingresso nei parchi, non riescono più ad accedere alle attività di sostentamento come caccia e raccolta, per il timore di essere picchiati o insultati.
«Molti bayaka sono costretti a vivere ai margini della foresta, lungo le strade e sono spesso vittime di alcolismo e malattie», racconta il ricercatore di Survival International che si è recato diverse volte nel paese.
La relatrice Onu: «Gli indigeni africani sono sfrattati»
Le violazioni dei diritti dei popoli indigeni nei paesi africani vengono denunciate anche da Victoria Tauli-Corpuz, relatrice speciale dell’Onu per i diritti dei popoli indigeni, in un report presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2016.
«In Africa molti popoli indigeni subiscono ancora sfratti dai loro territori, vengono cacciati dai governi e da alcune organizzazioni che si occupano di conservazione», afferma Victoria Tauli-Corpuz a Osservatorio Diritti.
La relatrice speciale delle Nazioni Unite nel descrivere la situazione in cui vivono alcune tribù indigene aggiunge: «C’è molta insicurezza alimentare, non viene permesso loro di raccogliere i frutti della foresta. Molti di loro non praticano l’agricoltura e non hanno mezzi di sussistenza».
Victoria Tauli-Corpuz racconta anche l’emergere di problemi sociali legati alla perdita della relazione con la natura, alla base della cultura indigena: «È in gioco il loro stesso diritto alla vita».
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Un modello di conservazione “razzista”
«Non si tratta di casi isolati», spiega a Osservatorio Diritti la ricercatrice Fiore Longo. «È un modello di conservazione che si fonda sull’idea che gli esseri umani abbiano impatti negativi sulla natura e che debbano, quindi, essere allontanati per creare spazi protetti».
Secondo Survival si tratta di un modello razzista, nato in epoca coloniale e definito da uomini bianchi, che considera la presenza indigena negativa. «Non tutti gli approcci alla conservazione sono uguali. Questo è il modello che è stato esportato in Africa e in Asia», spiega Fiore Longo. E aggiunge: «Si tratta di un paradigma che è stato abbandonato pubblicamente ma che emerge ancora nella pratica».
Il silenzio dell’organizzazione statunitense
Dalla Wildlife Conservation Society non è arrivata alcuna risposta a seguito delle accuse di Survival di violazione dei diritti dei popoli indigeni. Osservatorio Diritti ha scritto più volte all’organizzazione per la conservazione, senza ottenere alcun riscontro.
Sul suo sito internet la società statunitense definisce le comunità indigene i migliori alleati per la conservazione, riconoscendo a parole il loro ruolo nella gestione delle risorse naturali. Tra i principi che la Wcs sostiene, e che viene accusata di non rispettare, c’è la garanzia per la popolazione locale di vedere riconosciuti i loro diritti alla terra, all’acqua e alle risorse.
«I popoli indigeni sono i veri guardiani della foresta»
«I popoli indigeni sono coloro che davvero proteggono la foresta e la fauna selvatica che ci vive. Tutte le mappe mostrano che le zone meglio conservate sono quelle in cui vivono queste tribù», afferma Victoria Tauli-Corpuz spiegando come, proprio nei territori in cui vivono da generazioni gli indigeni, si trova la maggior biodiversità di fauna e flora.
La relatrice speciale delle Nazioni Unite li definisce «i migliori difensori della conservazione». Il ruolo dei popoli indigeni nella tutela della natura viene riconosciuto a livello internazionale nella Convenzione sulla diversità biologica del 1992 e nella Dichiarazione Onu per i Popoli Indigeni adottata nel 2007.
Secondo Victoria Tauli-Corpuz sono ancora molti gli Stati che non riconoscono nemmeno l’identità dei popoli indigeni, considerandoli semplicemente minoranze. Alcune organizzazioni per la conservazione ufficialmente tutelano i loro diritti ma, come spiega la relatrice Onu, «devono mettere in pratica le loro dichiarazioni e fare pressione sui governi con cui lavorano».