Amianto: atto “riservato” inchioda Marina
Al processo Marina bis di Padova salta fuori un carteggio "riservato" del 1969 tra vertici della Marina militare e scienziati dell'epoca che Osservatorio Diritti ha potuto leggere. Dai documenti emerge che la Marina sapeva già allora della pericolosità dell'amianto. Ma «gli alti ufficiali non avrebbero informato gli operai», dice il pm Sergio Dini
Nelle ultime ore, tra le migliaia di pagine di carte del processo Marina bis in corso a Padova, è saltato fuori un carteggio “riservato” del 30 dicembre 1969. Una corrispondenza tra gli alti vertici della Marina militare e alcuni scienziati dell’epoca che Osservatorio Diritti ha potuto leggere e che sembrerebbe dimostrare che la Marina conosceva già 48 anni fa la pericolosità dell’amianto. E i pericoli che correvano gli operai che ci lavoravano.
«Una storia di silenzi che ancora oggi attende giustizia», la definisce l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto (Ona), parte civile nel processo nei confronti di 14 ex alti ufficiali della Marina militare italiana. Ex capi di stato maggiore come Filippo Ruggiero, Umberto Guarnieri e Guido Venturoni. Ex comandanti in capo della squadra navale come Mario Porta. Un ufficiale medico, Rodolfo Stornelli, medaglia d’oro al merito della Repubblica Italiana per la Salute Pubblica.
Sono tutti accusati, a diverso titolo, «di aver omesso al personale appartenente alla Marina dei rischi per la salute insiti negli ambienti di vita e di lavoro, a causa della presenza di amianto, tanto all’interno degli Arsenali, quanto all’interno delle navi militari».
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Omissioni di atti, di controlli e inspiegabili silenzi
Il dibattimento del procedimento Marina bis è cominciato il 25 maggio del 2015. Secondo il magistrato che rappresenta l’accusa, Sergio Dini, «gli alti ufficiali non avrebbero informato gli operai dei rischi che correvano, a causa delle polveri che respiravano, e dei materiali contenenti amianto che indossavano, guanti, tute, etc.».
Non soltanto. Sempre secondo il pubblico ministero «avrebbero omesso di sottoporre con regolarità i dipendenti della Marina militare a controlli sanitari specifici; e di adottare misure almeno per ridurre, secondo le possibilità della tecnica, il diffondersi delle polveri contenenti amianto».
Le accuse formulate dalla procura di Padova sono gravissime: omicidio colposo, lesioni personali colpose e cooperazione nel delitto colposo.
Un carteggio “riservato” tra vertici Marina e scienziati
Gli ultimi documenti emersi potrebbero rappresentare la pistola fumante di tutto questo procedimento. La prova che i vertici della Marina sapevano sin dalla fine degli anni ’60 dei pericoli che correvano gli operai starebbe in un carteggio “riservato”, una corrispondenza tra gli alti vertici della Marina e alcuni scienziati dell’epoca.
Il documento, datato 30 dicembre 1969, è stato appena depositato agli atti del processo di Padova da Ezio Bonanni, che, oltre a essere presidente dell’Ona, è anche legale difensore di decine tra ex militari e familiari di persone decedute.
Dice l’avvocato a Osservatorio Diritti: «Un documento della direzione di Sanità della Marina militare che risale al 1969, risultato di una indagine epidemiologica, dimostra che su un campione di 269 operai che lavoravano allora presso l’Arsenale di Taranto, il 10% era affetto da mesotelioma o asbestosi; un altro 16% presentava sintomi sospetti».
La Marina «conosceva la pericolosità dell’amianto»
Non solo. Racconta ancora Bonanni: «Il dato sconcertante che emerge, è che la Marina era a conoscenza della pericolosità dell’amianto ben 22 anni prima della sua messa al bando, avvenuta nel 1992. Dal carteggio riservato, inoltre, si scopre che furono trasferiti i 27 operai già colpiti dalla malattia, mentre altri 42 casi classificati nel 1969 come “probabilmente affetti” continuarono a respirare le polveri letali».
È una storia di inquietante silenzio che ancora oggi chiede giustizia. «Quella dell’amianto è stata una strage evitabile. Una parte dello Stato sapeva dei suoi effetti letali. Invece, sono stati proprio gli enti pubblici e le aziende statali i maggiori utilizzatori», conclude Bonanni.
Bisognava «evitare allarmi eccessivi»
È il silenzio a definire i contorni di questa storia, che finora è stata riportata qualche giorno fa solo dalla testata giornalistica di Taranto Inchiostroverde.it. Sin dalla fine degli anni’ 60, se leggiamo la parte del carteggio in cui il dottor Luigi Ambrosi, direttore della Cattedra di medicina del lavoro dell’Università di Bari, chiedeva alla direzione della Marina militare «di poter condurre uno studio scientifico a carattere epidemiologico-statistico ed ambientale sull’Arsenale di Taranto». Preoccupandosi di precisare: «Il carattere squisitamente scientifico di tali indagini, i cui risultati sarebbero rimasti a disposizione esclusivamente della Direzione di Sanità militare, e non sarebbero stati forniti ad alcun ente, organizzazione politica o sindacale, estraneo alla Marina».
Quando poi i primi risultati vennero fuori, e si capì anche la gravità della situazione sanitaria tra i lavoratori, la reazione dei vertici militari fu questa:
«È in corso, in collaborazione con la sala medica, un’azione intesa ad allontanare dal posto di lavoro gli elementi più colpiti, un’azione che dovrà essere opportunamente differita nel tempo per evitare allarmi eccessivi ed ingiustificati».
Questo si legge in un altro documento classificato “riservatissimo”. Nella lettera del 14 febbraio del 1970 scritta dal generale Mario Ingravallo, allora direttore dell’Arsenale di Taranto, e indirizzata a Navalcostarmi, la direzione generale delle Costruzioni, delle Armi e degli Armamenti navali, ente alle dirette dipendenze dello Stato Maggiore del ministero della Difesa.
Anche questo carteggio è finito agli atti del processo di Padova, insieme alla conferma che non erano solo i vertici della Marina a sapere. Si legge ancora nella lettera:
«Si fa presente che il problema è attualmente noto alle organizzazioni sindacali, che ne sono al corrente attraverso le visite mediche effettuate agli operai».
L’indagine parlamentare
Nel maggio 2016 la commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti dell’utilizzo dell’uranio impoverito (incaricata di indagare sui casi di gravi malattie del personale impiegato nei siti in cui sono depositati munizionamenti) è stata all’Arsenale di Taranto, effettuando un sopralluogo. «Per poter acquisire un quadro aggiornato delle condizioni di lavoro dei dipendenti della Difesa impiegati sul posto, ma anche per svolgere una serie di audizioni con i diversi soggetti interessati sul tema della sicurezza nei luoghi di lavoro».
La parlamentare Donatella Duranti, vice-presidente della commissione, ha detto: «L’Arsenale è un ambiente condizionato da una molteplicità di fattori patogeni. Ed è proprio sulla non invidiabile specificità di questo luogo che la commissione di inchiesta è stata chiamata ad indagare». A quella visita, poi, si sono aggiunte diverse audizioni. La commissione ha sentito le parti sociali e gli attuali vertici militari.
L’amianto e il Magazzino 53
Luciano Carleo, rappresentante dell’associazione Contramianto onlus, ha spiegato ai parlamentari che «l’archivio dell’associazione ha censito finora, in provincia di Taranto, 300 casi di malattie asbesto correlate e che i dati sono in continuo aggiornamento».
Nell’ufficio del centro di Taranto dove ha sede l’associazione Contramianto, Carleo, operaio anche lui, mostra a Osservatorio Diritti centinaia di memorie operaie di suoi colleghi raccolte in sedici anni di attività.
E dice: «L’amianto in Arsenale era utilizzato in maniera ampia. Tutto il materiale fatto di fibre d’amianto disponibile di scorta finiva in uno stesso magazzino, il 53». Poi tira fuori l’appunto di un operaio deceduto per mesotelioma pleurico nel 2010, una delle tante memorie operaie ora agli atti del processo Marina bis che si sta celebrando al tribunale di Padova. Parole che suonano come conferme. E che postume potrebbero pesare come macigni sulla coscienza di chi sapeva:
«Lavoravo al magazzino dei materiali di coibentazione. Quando i Tir scaricavano all’interno, tanto era la polvere che non si riusciva a vedere nulla. Noi accatastavamo il materiale, in grande quantità, e poi successivamente veniva distribuito a tutti, a bordo delle navi, in arsenale, alle ditte».