Tortura: una legge tutta da rifare
Il reato di tortura entra nell’ordinamento italiano. Ma la norma non piace a nessuno e fa acqua da tutte le parti: scritta male, con grandi margini di discrezionalità nelle mani dei giudici, è difficile da applicare. E limita la possibilità delle vittime di vedere giustizia
Alessandra Ballerini è un’avvocata impegnata nella difesa dei diritti umani. Tra le altre cose, ha partecipato come consulente della commissione Diritti umani del Senato per il monitoraggio dei centri di accoglienza e di detenzione per stranieri e alla stesura del Libro Bianco sui Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpta). Lavora con il centro antiviolenza di Genova ed è socia di Adif, Associazione diritti e frontiere. È osservatrice di Antigone per la Liguria e quindi autorizzata a visitarne le carceri. Fa parte dell’associazione Avvocato di strada che opera per la tutela dei senza dimora. Collabora con Amnesty International ed è consulente di Terres des Hommes.
TORTURE
di Wislawa Szymborska
Nulla è cambiato.
Il corpo prova dolore,
deve mangiare e respirare e dormire,
ha la pelle sottile, e subito sotto – sangue,
ha una buona scorta di denti e di unghie,
le ossa fragili, le giunture stirabili.
Nelle torture di tutto ciò si tiene conto.
Nulla è cambiato.
Il corpo trema, come tremava prima e dopo la fondazione di Roma,
nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo,
le torture c’erano e ci sono, solo la Terra è più piccola
e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.
Nulla è cambiato.
C’è soltanto più gente,
alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove,
reali, fittizie, temporanee e inesistenti,
ma il grido con cui il corpo
ne risponderà, è
e sarà un grido di innocenza,
secondo un registro e una scala eterni.
Nulla è cambiato.
Tranne forse i modi, le cerimonie, le danze.
Il gesto delle mani che proteggono il capo
è rimasto però lo stesso,
il corpo si torce, si dimena e si divincola,
fiaccato cade, raggomitola le ginocchia,
illividisce, si gonfia, sbava e sanguina.
Nulla è cambiato.
Tranne il corso dei fiumi,
la linea dei boschi, del litorale, di deserti e ghiacciai.
Tra questi paesaggi l’anima vaga,
sparisce, ritorna, si avvicina, si allontana,
a se stessa estranea, inafferrabile,
ora certa, ora incerta della propria esistenza,
mentre il corpo c’è, e c’è, e c’è
e non trova riparo.
«Il corpo prova dolore. Il corpo inesorabilmente c’è e non trova riparo e l’anima si aliena da sé». Non conosco una definizione più esatta e spietata di “tortura”, parola impronunciabile fino a pochi giorni fa, almeno nel nostro ordinamento.
Eppure, nel nostro tempo, nel nostro paese, quella parola si compie lacerando corpi e anime. E ora, finalmente, quella parola è stata pronunciata. Ed è stata scritta in una norma, l’articolo 613 bis del codice penale. Una legge che però sarà, nella maggior parte dei casi, inadatta a punire chi quella parola agisce.
Una legge che non piace a nessuno
Abbiamo letto in queste settimane i commenti sdegnati di ong e associazioni a tutela dei diritti umani, giustamente preoccupate da un testo di legge atteso da decenni che riesce a deludere tutti e a fare letteralmente imbestialire i sindacati di polizia, che alla loro impunità tengono tanto.
La legge, infatti, scritta in italiano maldestro, impone, perché possa configurarsi il reato di tortura, la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico, la prova della crudeltà del torturatore e della minorata difesa del torturato e i tempi di prescrizione ordinari, limitando così le possibilità per la vittima di vedere giustizia.
Nel testo approvato la tortura è un reato generico, che quindi può essere commesso da chiunque e non soltanto da un pubblico ufficiale (in quest’ultimo caso è prevista un’aggravante). Eppure una speciale categoria di pubblici ufficiali, vale a dire le forze dell’ordine, si sono immediatamente sentite chiamate in causa e hanno reagito, all’approvazione della legge, con quella stessa arrogante violenza sottesa alla condotta criminale che la norma vorrebbe vietare e punire.
Inapplicabile ai fatti del G8 di Genova
Si tratta di una legge scritta male, che lascia un margine di discrezionalità altissima nelle mani dei giudici e costringe le vittime a una sorta di probatio diabolica.
Anche i magistrati che si sono occupati dei processi relativi all’irruzione alla scuola Diaz e sui fatti avvenuti alla caserma di Genova Bolzaneto durante il G8 di Genova avevano provato ad opporsi all’approvazione di questa normativa, scrivendo una lettera alla presidente della Camera, Laura Boldrini. E spiegando che, con una simile norma, non si riuscirebbe a punire neppure quei i reati commessi dalle forze dell’ordine in quell’indimenticabile luglio 2001 genovese.
«Ci pare si debba riflettere su questo paradosso: una nuova legge, volta a colmare un vuoto normativo in una materia disciplinata da convenzioni internazionali, sarebbe in concreto inapplicabile a fatti analoghi a quelli verificatisi a Genova, che sono già stati qualificati come tortura dalla Corte Europea, garante della applicazione di quelle convenzioni..».
I magistrati sottolineano che «è infatti indiscutibile: che alcune delle più gravi condotte accertate nei processi di cui si tratta siano state realizzate con unica azione; che le acute sofferenze mentali cui sono state sottoposte molte delle vittime abbiano provocato per ciascuna conseguenze diverse non in ragione della maggiore o minore gravità della condotta, ma in ragione della differente personalità di coloro che l’hanno subita; che – come attestano le evidenze scientifiche – nulla consente di definire in termini di maggiore gravità e intensità la sofferenze provocate al momento dell’inflizione di una tortura di tipo psicologico da quelle che residuano e – come richiesto dalla legge in corso di approvazione – si manifestano in un trauma “verificabile” (e dunque diagnosticabile e duraturo)».
«La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima (quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione necessariamente riconducibile al sintagma della “minorata difesa”».
Una legge con tante scappatoie
Che fosse una brutta legge lo aveva già evidenziato, quasi gridando, il Commissario per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, in una lettera indirizzata il 16 giugno ai presidenti del Senato, della Camera, delle commissioni Giustizia dei due rami parlamentari e al presidente della commissione straordinaria Diritti umani del Senato, sottolineando come la norma in discussione fosse contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e distante dalla Convenzione Onu del 1984 e capace di garantire “scappatoie per impunità”.
E sono proprio queste scappatoie di impunità a preoccuparci. In un paese dove la tortura è ancora un tabù, non perché non la si agisca o non ci si allei con capi di Stato che la utilizzano quotidianamente, ma perché ne si nega la sua pratica, le sacche di impunità sono un rischio concreto ed evidente. E il fatto che il legislatore abbia tentennato così a lungo prima di introdurre nel codice penale una norma che la vietasse per poi cedere alle pressioni delle divise (nella parte in cui si prevede la tortura non è un reato proprio delle stesse) la dice lunga sulla effettiva volontà di punire tale abominio.
Espulsioni verso paesi di tortura
In Italia, peraltro, la tortura non solo è praticata fino alle estreme conseguenze (basta leggere, oltre alle sentenze della Cedu sui fatti di Genova e la celeberrima “Torreggiani / Italia sulle condizioni carcerarie”, il formidabile libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella“), ma è prassi consolidata pure l’espulsione di cittadini stranieri verso paesi (amici) dove la tortura viene praticata con fiera ostentazione.
Per fare solo un esempio tragicamente noto a tutti, nell’Egitto di Al Sisi, dove Giulio Regeni è stato sequestrato, torturato e ucciso nella (per ora) totale impunità, e dove almeno tre persone al giorno subiscono la stessa sorte di Giulio, le nostre autorità hanno rimandato coattivamente giusto qualche settimana fa una trentina di profughi sbarcati a Lampedusa, che non hanno neppure avuto la possibilità di presentare richiesta di protezione internazionale, come sarebbe stato loro diritto fare.
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A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, si può leggere con una qualche cauta speranza la nuova formulazione dell’articolo 19 del testo unico sull’immigrazione riguardo il divieto di espulsione che ora, in virtù della nuova normativa in tema di tortura, prevede:
«Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani».
Una lotta che continua
Da domani, dunque, dovrebbero immediatamente cessare i rimpatri forzati e i respingimenti verso l’Egitto, ma anche verso il Sudan, Turchia, Libia e tutti gli altri Paesi dove i diritti umani sono sistematicamente violati (e per farsi un’idea di quali e quanti siano basterebbe leggere l’implacabile rapporto di Amnesty International).
Non sarà cosi, ovviamente. Toccherà ancora una volta vigilare e denunciare.
Fino a quando questa, che è la più indicibile delle parole, sparirà non dalle nostre (cattive) leggi o dalle (ottime) convenzioni, ma dal nostro agire e, direi, dalla nostra “cultura” – e non perché resa invisibile e sottile, ma perché se ne sarà percepito l’orrore e la vergogna e perché, magari, si sarà provveduto a formare adeguatamente i pubblici ufficiali per evitare che, come direbbe la filosofa Donatella Di Cesare, «ogni potere diventi una tentazione di eccesso, ogni forza una promessa di brutalità, ogni pena la minaccia di un supplizio, ogni interrogatorio il rischio di una tortura».
Ho personalmente visto tanti di quei corpi che «ci sono, ci sono, ci sono e non trovano riparo» e di quelle anime mutilate. Assistere impotenti all’impunità di chi ha compiuto su questi corpi e su queste anime «un furto di umanità», come direbbe Adriano Zamperini, annichilendole e annientandole, a sua volta «cagiona acute sofferenze», aggiunge tormento al tormento, tortura alla tortura.