Messico, il paese dei desaparecidos

Il paese si è trasformato in un enorme cimitero: 32.318 scomparsi dal 2006 a oggi, il doppio dei desaparecidos durante le dittature argentine e cilene degli anni '70. «Incontriamo resti di ossa, crani, femori», raccontano i familiari. Che denunciano la complicità tra narcos e istituzioni

da Città del Messico

Trentaduemilatrecentodiciotto. Basterebbe solo questa cifra, pronunciata forte e tutto d’un fiato. Trentaduemilatrecentodiciotto. Sono le persone scomparse, desaparecidos, in Messico, dal 2006 a oggi. Il dato è stato pubblicato dal Sistema nazionale di sicurezza pubblica della segreteria di governo ed è la prima volta che lo Stato riconosce che la cifra ufficiale di 26 mila desaparecidos ha drammaticamente fatto un balzo in avanti.

Oggi in Messico le persone desaparecidas sono il doppio di tutte quelle scomparse durante le dittature argentine e cilene degli anni Settanta. «Il problema è che per la comunità internazionale il Messico è un paese democratico con un governo legittimamente eletto. È solo un travestimento che nasconde, in maniera neanche troppo velata, sparizioni forzate, pratiche di tortura, complicità fra criminalità organizzata e governo. Oggi possiamo affermare che la “desaparición forzada” è una pratica usata in maniera sistematica dallo Stato», ripetono, scrivono e dimostrano con ricerche, dati e testimonianze, attivisti, giornalisti e accademici.

Ogni sparizione non è un evento casuale e isolato, ma si inserisce in una strategia articolata di controllo sociale. Ciò che le rende sparizioni forzate è l’intervento dello Stato, che agisce in collusione col crimine organizzato permettendo che si facciano sparire le persone, o fornendo sostegno logistico e operativo alla stessa criminalità organizzata.

Attivisti loro malgrado: la storia di Silvia Ortiz

Gli attivisti lo sono loro malgrado. Come Silvia Ortiz, che dal 2004 sta cercando sua figlia Fanny, scomparsa da Torreón, stato di Coahuila. Silvia a un certo punto aveva capito che nessuno era alla ricerca di sua figlia e che le istituzioni erano un muro di gomma di fronte alle sue richieste di aiuto. Intanto il tempo passava e diventava sempre più difficile non perdere le tracce.

Silvia iniziò così a cercare Fanny, ma sapeva che da sola non sarebbe potuta arrivare da nessuna parte. Lungo il cammino ha incontrato il gruppo “Vida” (Vita), familiari e amici di persone scomparse che si auto organizzano, si trasformano in “buscadores”, quelli che cercano.

«Quando con la mia famiglia ci siamo resi conto che nella scomparsa di mia figlia era implicato il crimine organizzato, che le istituzioni non avevano intenzione di cercarla e che la scomparsa di mia figlia avveniva in un contesto in cui oggi tutti possono sparire, abbiamo deciso di unirci agli altri familiari delle vittime», racconta.

Lo zampino dei “Los Zetas” e le “casas de seguridad”

Grazie alle sue ricerche, Silvia scoprì che molto probabilmente Fanny era stata sequestrata dal cartello della droga “Los Zetas” e rinchiusa in una delle cosiddette “casas de seguridad” di cui è disseminato il paese.

Le “case de seguridad” sono dei veri e propri campi di concentramento, edifici perfettamente organizzati secondo una rigida e funzionale struttura che serve alla criminalità organizzata per molteplici scopi, come rapire migranti a cui chiedono di pagare un riscatto in cambio della loro stessa vita, sequestrare ingegneri, elettricisti o persone che conoscono più di una lingua, schiavizzarli e obbligarli a costruire una linea di comunicazione parallela e illegale. “Casas” da dove organizzano il traffico di esseri umani o di organi.

Al crimine organizzato serve forza lavoro, preferibilmente specializzata, e sicuramente gratuita. Spesso è l’esercito o la polizia a sequestrare e consegnare ai gruppi della criminalità manodopera da schiavizzare. Le organizzazioni che cercano i loro desaparecidos lo sanno bene:

«Quando denunciamo una scomparsa, molto probabilmente stiamo chiedendo giustizia alle stesse persone che ce li hanno portati via», affermano in “Vida”.

Un enorme cimitero chiamato Messico

Per Silvia «il paese si è trasformato in un enorme cimitero. Siamo consapevoli che dobbiamo andare avanti e che questo implicherà correre dei pericoli e forse ci potrà andar male. È la paura che ci fa camminare e dire che se loro hanno sofferto noi dobbiamo vincere la paura e andare avanti per trovarli. I nostri figli sì che hanno avuto paura», afferma Silvia.

Scavano con le mani nude nella terra, per cercare quel che resta, per riempire di presenza l’assenza. Grazie alle loro ricerche, individuano zone dove potrebbero essere occultati corpi.

«Abbiamo incontrato resti di ossa, ma anche due crani interi e un femore. Solo un dente per noi vale molto, perché sappiamo che tutto quello che troviamo è un pezzo del cuore di qualcuno: un padre, una madre, una compagna che lo o la sta cercando».

Ad ogni frammento che riscattano, riescono a dare un nome grazie alla prova del dna: «Ogni territorio è differente e a seconda del luogo le modalità di ricerca cambiano. Dove stiamo cercando ora, sappiamo che quando non gli servono più li “cucinano”, sciolgono in pentole, riducono in liquido e quindi quando buchiamo la terra con pali, esce liquido». Quel liquido sono corpi che nessuno potrà più riconoscere e piangere.

Secondo il Registro nazionale di dati di persone smarrite o scomparse, solo negli ultimi due anni e mezzo la lista delle persone scomparse è cresciuta di 8.500.

Molte famiglie che si auto organizzano e producono prove vivono sotto minaccia. A maggio è stata uccisa in casa sua Miriam Elizabeth Rodríguez Martínez, dirigente del Collettivo di scomparsi, sequestrati e vittime di San Fernando. Miriam cercava sua figlia Karen Alejandra. Cercando ha scoperto e denunciato tutte le implicazioni tra sparizioni, criminalità organizzata e autorità locali. Questo articolo, per quel che vale, è dedicato a Miriam.

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opera mundiQuesto articolo è pubblicato in collaborazione con Opera Mundi, un importante sito di informazione brasiliano con una forte vocazione agli esteri “senza perdere di vista una prospettiva brasiliana e latino-americana dei fatti”.

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