Far soldi con la detenzione dei migranti

Dalla privatizzazione del sistema agli hotspot: 20 anni di reclusione degli stranieri in Europa

Dalla fine degli anni ’90 a oggi la detenzione è diventata la misura principale di gestione delle popolazioni migranti, dentro e al di fuori dell’Europa. Con il pretesto degli arrivi di massa, l’Unione europea e gli Stati membri hanno continuato a rafforzare i propri sistemi di privazione della libertà. «La reclusione degli stranieri è diventata una filiera molto remunerativa da cui traggono profitto un certo numero di attori privati, in particolare le multinazionali, con i costi sociali che sono scaricati su tutta la società», spiega Martin Schirdewan, direttore dell’ufficio di Bruxelles della fondazione Rosa Luxemburg.

Secondo Schirdewan «siamo di fronte a un fenomeno di vera e propria privatizzazione della detenzione dei migranti, che sta prendendo piede, in forme diverse, nei vari paesi europei». Per il direttore, questo «accade se si ricorre sempre più spesso ad agenzie di sicurezza per la gestione della reclusione degli stranieri e anche per il loro rimpatrio. Dalla costruzione dei centri, alla loro amministrazione (assistenza sanitaria, legale, mense, pulizie, manutenzione), ogni servizio viene esternalizzato, a tutto vantaggio di compagnie private».

Una spesa da 11,3 miliardi di euro

The migrants files”, un consorzio di giornalisti investigativi coordinato da Journalism++, ha stimato in almeno 11,3 miliardi di euro la spesa sostenuta dall’Ue, dal 2000 ad oggi, per allontanare e detenere gli stranieri.

E nella cifra non sono considerati i fondi stanziati per la cooperazione allo sviluppo, spesso utilizzata come moneta di scambio nei negoziati con gli altri paesi per ottenere collaborazione sulle espulsioni e i rimpatri.

L’inchiesta prende in considerazione anche i costi umani, oltre a quelli economici, arrivando a stabilire che «tra il 2000 e il 2014 sono stati 28.000 gli scomparsi, tra morti e dispersi, alla frontiera dell’Ue». Dati che gli stessi autori considerano come sottostimati, visto che molti migranti muoiono senza che la loro sparizione sia denunciata da qualcuno.

La messa in scena degli Stati membri

Diverse ricerche hanno evidenziato che i governi europei mettono in campo politiche repressive, a prescindere dalla loro efficacia. Come hanno spiegato i sociologi britannici M. Flynn e C. Cannon, in un corposo manuale del 2015, “The privatization of immigration detention, Global detention project”.

«Il loro obiettivo (degli Stati) è convincere con misure spettacolari un’opinione pubblica preoccupata dal disordine globale. In questo senso, la creazione di centri per migranti che ricordano le carceri, è una messa in scena attuata sia per criminalizzare una fascia di popolazione indesiderabile, che per rendere manifesta la forza dello Stato».

Eppure l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr) ha confermato in più occasioni che i flussi migratori Sud-Nord restano un fenomeno minoritario, poiché c’è una maggiore tendenza a fuggire nei paesi più vicini alla propria terra di origine. Inoltre, «a causa dei sistemi di chiusura delle frontiere messi in campo, pochi rifugiati riescono effettivamente a entrare in territorio europeo».

Grandi affari con le politiche di esclusione

Le politiche di esclusione dei migranti praticate dall’Unione europea e dai suoi Stati membri – reclusione, espulsione, chiusura delle frontiere, esternalizzazione dei controlli migratori – sono state di recente denunciate dal rapporto “Il fiorente business della detenzione dei migranti nell’Unione europea”, realizzato da Migreurop, una rete di associazioni, attivisti e ricercatori presenti in una ventina di paesi, in Europa, Africa e Medio Oriente.

Lidye Arbogast, docente di migrazioni e relazioni interetniche all’Università di Parigi, è l’autrice del report. Realizzato grazie al sostegno della Rosa Luxemburg-Stiftung, lo studio analizza alcuni esempi emblematici degli affari che si concludono in Europa sulle spalle dei rifugiati e delle conseguenze della ricerca del profitto ad ogni costo.

Particolare attenzione è stata data al fenomeno della privatizzazione della detenzione dei migranti, che riguarda soprattutto gli Stati Uniti, l’Australia e il Regno Unito, i primi paesi ad aver «delegato lo sfruttamento di strutture di reclusione ad attori privati».

Arbogast spiega che «siamo in presenza di una tendenza generale, promossa da politiche di stampo neoliberista, a trasformare la detenzione dei migranti in un business lucrativo per un ampio ventaglio di attori».

Il modello inglese di detenzione dei migranti

Nel Regno Unito, secondo lo studio, troviamo il modello di detenzione più antico (è nato nel 1970), e pure il peggiore dal punto di vista del rispetto delle persone detenute. A quasi cinquant’anni dalla sua istituzione, la maggior parte di questo sistema è gestito da aziende private.

L’intero mercato della reclusione è dominato da una manciata di multinazionali della sicurezza. Il ministero dell’Interno appalta la gestione dei centri di detenzione per migranti ad aziende private come G4S, Geo Group, Mitie, Serco, e Tascor.

In particolare, l’azienda britannica G4S si presenta oggi come leader mondiale nel campo dei servizi di sicurezza. La società opera in 125 paesi, impiega centinaia di migliaia di persone e ha bilanci che sfiorano i 7 miliardi di euro. È una multinazionale della security, che gestisce i posti di polizia nel Regno Unito, amministra prigioni negli Stati Uniti, fornisce servizi e attrezzature alle carceri israeliane, garantisce la sicurezza lungo i giacimenti petroliferi di mezza Africa. E, ovviamente, gestisce i centri detentivi per stranieri, in Grecia e nei paesi anglosassoni.

Di recente, sempre stando a quanto riportato nello studio, G4S è stata coinvolta anche in una serie di episodi inquietanti: il decesso per soffocamento di un richiedente asilo angolano, Jimmy Mubenga, e di un aborigeno australiano durante una normale operazione di trasferimento carcerario. Il modello inglese si caratterizza anche per la possibilità per gli stranieri di essere trattenuti a tempo indeterminato.

L’Europa dell’esclusione

La situazione non è più rosea negli altri paesi europei. Come in Francia, dove il 10 agosto 2010 quattro migranti irregolari, assunti per lavorare nel cantiere di allargamento del centro di detenzione amministrativa (Cra) di Mesnil-Amelot, sono stati arrestati e rinchiusi nello stesso centro.

In pratica, spiega il rapporto di Arbogast, la multinazionale Bouygues, che opera su mandato del ministero della Difesa francese, aveva fatto costruire ai migranti la loro stessa prigione. In Francia – a differenza del sistema britannico, dove la gestione è delegata totalmente multinazionali, e di quello italiano, che vede una gestione condivisa tra amministrazione pubblica e aziende private – la detenzione amministrativa è gestita solo dallo Stato, anche se l’affidamento esterno di attività legate alla gestione dei Cra permette comunque a una miriade di aziende private di trarre notevoli profitti dalla detenzione amministrativa. A fare grossi affari in questi ultimi anni sono state soprattutto le grosse imprese di costruzioni.

In generale, si registra una tendenza, nella maggior parte degli altri paesi europei, dalla Germania, alla Svezia, alla Spagna e alla Grecia: la presenza, in forme diverse, di un mercato della detenzione dei migranti.

Il caso italiano tra ombre mafiose e l’approccio hotspot

Un caso a parte è l’Italia, dove le autorità pubbliche appaltano la gestione e la presa in carico dei migranti detenuti ad attori privati, e dove l’inchiesta “Mafia Capitale” ha svelato la penetrazione della criminalità organizzata nel mercato della detenzione. Per molti anni, la Croce Rossa è stato l’unico organismo privato autorizzato a operare nei centri di identificazione ed espulsione italiani.

Ora il sistema della detenzione per stranieri è aperto alla concorrenza e anche al massimo ribasso sui servizi da offrire. In Italia, dalla primavera del 2015 è attivo un nuovo dispositivo di reclusione: gli hotspot. Fortemente voluti dalla Commissione europea, servono a identificare e registrare tutti i migranti che sbarcano nei cosiddetti “Paesi di primo approdo”, Grecia e Italia, appunto.

In realtà, sottolinea il report, somigliano sempre di più a campi di reclusione e selezione, dove i migranti vengono letteralmente parcheggiati in attesa di essere espulsi o ricollocati in un altro stato membro.

Diverse censure sul loro funzionamento, da ultimo, sono state espresse anche dalla Corte dei Conti Europea. Il presidente Klaus-Heiner Lehne ha ammonito: «Le autorità greche ed italiane devono adottare tutte le misure possibili per garantire che i minori non accompagnati che arrivano come migranti siano trattati in conformità alle norme internazionali».

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