La lotta italiana alle mine antiuomo

Rapporto di Pax analizza gli investimenti al settore: le posizioni di Generali, Intesa e Unicredit

L’Italia fa progressi nella legislazione contro bombe a grappolo e mine antiuomo, armamenti che causano centinaia di morti e mutilazioni in tutto il mondo, anche ad anni di distanza dalla fine dei conflitti. Lo registrano Pax (la nuova denominazione di IKV Pax Christi in Olanda, storica organizzazione cattolica contro la guerra), insieme al centro di ricerche olandese Profundo, specializzato nello studio degli investimenti controversi sul piano etico.

Il mercato di questo tipo di armamenti, secondo gli esperti, conta 166 istituzioni finanziarie in 14 Paesi coinvolte a vario titolo nel finanziamento della filiera delle armi. Il giro d’affari negli ultimi quattro anni è stato di 31 miliardi di dollari investiti in solo sei produttori. Il lato positivo, però, è che sono 88 gli istituti finanziari che, in modo differente, vietano gli investimenti nel settore. È quanto afferma il report “Investimenti globali nelle bombe a grappolo: una responsabilità condivisa” firmato da Pax e Profundo.

Una legge molto attesa

L’Italia, grazie anche agli sforzi delle lobby anti-armamenti (come la Campagna italiana contro le mine), deve discutere una nuova proposta di legge, depositata al Senato nell’ottobre 2016, per proibire a tutte le istituzioni bancarie italiane di fare affari con i produttori di mine, sia italiani che stranieri. Una normativa che è stata presa come esempio anche in altri Paesi del mondo, seppur non sia ancora legge dello Stato. Quanto servirà perché venga pubblicata nella Gazzetta dello Stato? Le nebbie all’orizzonte politico promettono ancora burrasca per la votazione di questa legge.

Anche da parte dei tre principali gruppi bancari italiani – Intesa Sanpaolo, Unicredit e Generali – ci sono stati dei passi in avanti. Pax e Profundo li mettono nella categoria “runners-up”, i secondi classificati. Le banche non si sono ancora liberate da tutti i rapporti con la filiera delle mine antiuomo, che non comprende solo i produttori, ma anche chi le trasporta, chi le rivende, chi le finanzia. Chi raggiunge questo obiettivo rientra nella Hall of Fame nel rapporto della campagna.

Le “terze parti” di Generali

Generali è un gruppo sia assicurativo sia bancario con filiali in 60 Paesi. In particolare, il gruppo è molto forte in Italia, Francia e Germania. Il rapporto di Pax sottolinea che:

«Generali nelle sue Linee Guida sugli investimenti responsabili esclude le compagnie che “usano, sviluppano, producono, acquistano, stoccano o vendono armi controverse o componenti/servizi chiave per la realizzazione di queste armi”, comprese le munizioni».

Un buon testo, secondo gli esperti di Pax e Profundo, ma che ha il limite di applicarsi solo per gli investimenti delle compagnie del gruppo. Non vale invece per le cosiddette “terze parti”: investimenti interni che pescano in fondi più grossi che a loro volta investono altrove, oppure investimenti fatti per conto di altri. Potrebbe essere il caso, per esempio, di una società di Generali che investe in un fondo pensione, che a sua volte investe in un’azienda che produce un componente fondamentale per la fabbricazione di bombe. Nemmeno nel caso delle “polizze unit-linked”, ossia polizze il cui capitale offerto è legato all’andamento dei fondi assicurativi a cui sono legate, sono esclusi. C’è solo un’ulteriore lista di asset e fondi vietati dalla compagnia, ma la lista nera, si legge nel rapporto, non è pubblica.

Intesa Sanpaolo: ok solo per fondi controllati al 100%

La banca nata dalla fusione di Banca Intesa e Sanpaolo Imi è particolarmente presente nell’Europa orientale e nell’area mediterranea. In tutto conta 11,1 milioni di clienti. Alle richieste di spiegazione in merito ai suoi investimenti in società implicate nella filiera delle mine, Intesa Sanpaolo, secondo quanto si legge nel documento, ha risposto che la policy sugli investimenti responsabili del 2015 prevede che:

«Sono messe al bando tutte le attività di banking connesse con la produzione o il commercio di armi controverse o bannate da trattati internazionali, come le cluster bomb».

Questo vale sia per i crediti, sia per gli investimenti. Così i fondi Eurizon Ethical International Equity, Eurizon Ethical Diversified e Eurizon Ethical Bonds, gestiti al 100% dalla banca, sono completamente liberi da ogni legame con il mondo delle bombe.

Ma non è abbastanza: la banca ha promesso di riformare la propria policy interna in materia, per aggiungere nuove casistiche alla lista nera degli investimenti vietati. La nuova policy, però, sottolinea il report, ancora non è arrivata.

Unicredit, il destino incerto di Pioneer Investments

Nel 2011 Pioneer Investments, il braccio di Unicredit che si occupa di gestione degli asset finanziari del gruppo, ha escluso dal suo portfolio aziende coinvolte nella filiera delle bombe. Eccezion fatta per delle tipologie speciali di fondi che scelgono dove investire a seconda di regole aritmetiche e indici (come i quant fund). Esclusi anche i fondi americani inclusi nel portfolio Pioneer, oltre alle “terze parti” già incontrate con Generali.

Nel 2016 la controllata Pioneer è stata ceduta da Unicredit alla francese Amundi. Ora la banca italiana e la società francese collaboreranno nella gestione dei fondi di Unicredit. Non è chiaro se la policy di Pioneer del 2011 resterà invariata. La nuova Pioneer ha invece parlato di una lista nera di investimenti prodotta attraverso la consulenza di agenzie esterne come Oekom Research, Msci Esg Research ed Ec Capital. Per la Hall of Fame serve che Unicredit allarghi le policy dei suoi fondi a tutti gli altri prodotti venduti dalla banca. Anche quelli non controllati al 100 per cento.

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