Lotta per i diritti dei contadini
I movimenti chiedono una Dichiarazione Onu per i diritti di contadini e lavoratori rurali
«È arrivato il momento di riconoscere i nostri diritti». Con queste parole movimenti contadini e organizzazioni della società civile hanno chiesto l’adozione di una Dichiarazione delle Nazioni Unite per i diritti dei contadini e dei lavoratori rurali. Il 19 maggio a Ginevra si è conclusa la quarta sessione del gruppo di lavoro intergovernativo delle Nazioni Unite che sta discutendo una bozza di dichiarazione. Oltre al movimento internazionale La via campesina, erano rappresentati anche pescatori, popoli indigeni e organizzazioni come Cetim (Centre Europe-Tier Monde) e Fian International.
L’obiettivo è fornire uno strumento di protezione specifico a contadini e lavoratori agricoli, i cui diritti sono spesso violati. Secondo La via campesina e le ong che hanno lavorato alla bozza, a rendere urgente l’adozione della Dichiarazione è il clima globale in cui i conflitti legati all’accesso alle risorse sono sempre più diffusi (come confermato anche da Michel Forst, relatore speciale Onu sui difensori dei diritti umani, in un’intervista esclusiva a Osservatorio Diritti).
Al termine del quarto appuntamento, però, non si è giunti a un testo condiviso da tutti i soggetti coinvolti. I movimenti sociali accusano i governi di alcuni paesi di voler bloccare l’accordo, rifiutando il riconoscimento dei diritti collettivi per la gestione e l’uso delle risorse. I nodi da sciogliere sono legati anche: ai titoli fondiari, all’accesso alla salute e alla protezione dagli espropri forzati. La decisione è rimandata, almeno al prossimo anno.
Producono cibo, ma soffrono la fame
La spinta per il progetto di Dichiarazione delle Nazioni Unite è nata nel 2012, quando un comitato consultivo del Consiglio Onu per i diritti umani pubblicò un rapporto «sull’avanzamento dei diritti dei contadini e di altri lavoratori nelle aree rurali» che sottolineava la necessità di una maggiore protezione per loro. Secondo il documento, infatti, nonostante i contadini rappresentino coloro che garantiscono l’accesso al cibo per la maggior parte della popolazione mondiale, l’80% di loro soffre la fame, è soggetto a povertà e malnutrizione. Il quadro che emerge è quello di contadini vulnerabili, emarginati e estromessi dall’accesso alle risorse.
Lo studio presentato al Consiglio per i diritti umani individua le cause della vulnerabilità e della condizione discriminatoria in cui vivono i contadini: l’esproprio delle terre e gli spostamenti forzati, la discriminazione di genere, l’assenza di riforme agrarie e di politiche di sviluppo rurale, la mancanza di protezione sociale e infine la criminalizzazione e repressione dei movimenti di protesta in aree rurali.
Terra a rischio esproprio
«La terra è la prima cosa che a noi contadini viene in mente quando parliamo di agricoltura. Senza terra non potremmo essere chiamati contadini. Non è quindi possibile separarci dalla essa».
A dichiararlo è stato un rappresentante indonesiano de La Via Campesina a Ginevra, durante la sessione di lavoro di maggio. L’accesso alla terra, infatti, è uno dei diritti richiesti a gran voce dai movimenti contadini in tutto il mondo.
Secondo il Shelter Report 2016 a cura di Habitat for Humanity sono in molti a essere ancora esclusi dalla capacità di possedere un terreno attraverso un titolo di proprietà o un atto formale o informale. Il rapporto stima che un miliardo di persone non avrebbe accesso alla terra o alla proprietà in cui vive. Senza documenti di proprietà in molti rischiano di essere espropriati o allontanati dal luogo in cui vivono. La mancanza di registrazione dei diritti di proprietà aumenta ulteriormente se consideriamo le popolazioni indigene e le comunità rurali. Secondo il report di Oxfam del marzo 2016 “Common Ground”, infatti, due miliardi e mezzo di persone possiedono solo un quinto della terra che spetterebbe loro. Esiste, dunque, secondo l’ong, una mancanza di riconoscimenti che spiega la violazione di diritti di molte comunità.
L’accesso alla terra non viene richiesto solo dalle comunità locali, ma anche da coloro che vogliono investire. La Banca Mondiale, infatti, attraverso il portale Doing Business analizza una serie di indicatori che permettono di valutare la facilità di investimento in un determinato paese. L’ organizzazione internazionale sottolinea l’importanza dei diritti di proprietà e specifica, per ogni paese: il numero di passaggi necessari, i costi e il tempo previsto per ottenerli. L’analisi considera anche i conflitti e le dispute sulla proprietà terriera, la qualità dell’amministrazione fondiaria e l’accesso equo ai titoli di proprietà.
Nel report 2017 di Doing Business la Banca Mondiale evidenzia come la registrazione dei diritti spinga il proprietario a investire nella terra e a migliorare le sue condizioni di vita. In alcun caso, però, nel report si fa riferimento a diritti o proprietà collettive, ora al centro del dibattito sulla bozza di dichiarazione.
La gestione condivisa della terra è invece molto diffusa tra le comunità rurali e i popoli indigeni. Proprio i terreni collettivi, spiega Oxfam in “Common Ground”, sono i più soggetti a fenomeni di esproprio e di allontanamento forzato delle comunità, di accaparramento delle terre. In Africa, secondo dati della Banca Mondiale del 2013, il 90% della terra è priva di documenti di proprietà e questo la rende altamente vulnerabile.
Il land grabbing nel mondo
Uno dei fenomeni che viola il diritto di accesso alla terra per le comunità rurali e indigene è l’accaparramento delle terre o land grabbing. Si tratta di un fenomeno globale di concessione delle terre per lunghi periodi di tempo, anche fino a 99 anni.
I protagonisti di quella che è stata definita “corsa alla terra” o “nuovo colonialismo” coprono un ampio spettro: dai soggetti statali ai fondi pensione, dalle multinazionali alle piccole aziende.
La piattaforma Land Matrix ha documentato più di mille accordi di concessione delle terre nel mondo, per una superficie che raggiunge i 49 milioni di ettari. Si tratta di intese tra pubblico e privato che coinvolgono stranieri e investitori locali. Nella maggior parte dei casi la terra concessa era già occupata da comunità locali e popoli indigeni.
Nell’ultimo rapporto di Land Matrix, pubblicato lo scorso ottobre, emerge come la maggior parte delle concessioni sia destinata alla produzione agricola e prenda di mira i paesi africani di area equatoriale e tropicale. Il paese che però detiene il record di accordi terrieri è in Asia: l’Indonesia, con 149 concessioni concluse. Gli investitori, a livello globale, provengono principalmente da: Malesia, Gran Bretagna, Singapore e Arabia Saudita.
Discriminazione di genere
La discriminazione di genere è un’altra delle cause di vulnerabilità dei contadini e dei lavoratori delle aree rurali ed è fortemente legata all’accesso alla terra. L’impatto del land grabbing è peggiore per coloro che hanno meno tutele, ovvero le donne, che difficilmente riescono ad accedere a diritti di proprietà. La Fao disegna una situazione precaria per le donne che, nell’Africa subsahariana, solo per il 32% amministrano un terreno e sono titolari delle decisioni in merito alle coltivazioni, eppure rappresentano la maggioranza della forza lavoro nel settore.
L’Istituto di sviluppo rurale Landesa evidenzia come in più della metà dei paesi i diritti di accesso alla terra per le donne non siano rispettati. In 90 paesi le leggi e i costumi rendono più difficile per le donne possedere un terreno, in particolare per le vedove e le figlie femmine. La relatrice speciale per i diritti dei popoli indigeni, nel 2015, aveva sottolineato l’aumento di insicurezza per le donne in ambito rurale e aveva definito il land grabbing un fenomeno «non neutrale nell’ambito di genere».
La vulnerabilità nell’accesso alla terra delle donne ha un impatto economico e sociale sul benessere dei figli. Secondo Landesa, nelle famiglie in cui la donna possiede un terreno i bambini hanno il 10% di possibilità in più di non ammalarsi e il 33% di non soffrire di malnutrizione.
Attivisti a rischio
A Ginevra i contadini hanno chiesto il riconoscimento di una maggior tutela per l’accesso alla giustizia delle comunità rurali, denunciando la criminalizzazione dei movimenti sociali. Le comunità rurali difficilmente riescono a ottenere vittorie giudiziarie e le loro proteste sono represse con la violenza. L’Ong Global Witness aveva definito il 2015 l’anno peggiore per il numero di persone uccise per aver difeso la loro terra, la foresta o i fiumi (qui sotto la mappa con gli omicidi compiuti nei singoli paesi tra il 2010 e il 2015).
Secondo i dati di Global Witness, i paesi con il maggior numero di uccisioni registrate tra il 2010 e il 2015 sono in Centro-Sud America: Honduras, Brasile, Colombia, Perù. L’Ong ha documentato, a livello globale, 16 casi in cui negli omicidi erano coinvolti paramilitari, 13 collegati all’esercito e 11 alla polizia. Tra i nomi più noti c’è quello di Berta Càceres, attivista e leader indigena uccisa in Honduras nel 2016.
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