Migranti disabili: un mondo sconosciuto
Se ne sa poco e alla fine i profughi con disabilità subiscono una doppia discriminazione
«Per le persone normali è difficile, ma per i disabili è quasi un miracolo attraversare la frontiera». Alan e Gyan sono fratello e sorella curdi siriani affetti da distrofia muscolare. Sono fuggiti dalle bombe con la famiglia nel 2014, parte del viaggio fatta legati a un cavallo, mentre un altro portava le loro sedie a rotelle. Dopo essere passati da Iraq e Turchia, il loro viaggio si è fermato per molto tempo in Grecia. «La loro è una disabilità completa, non possono asciugarsi le proprie lacrime», racconta la madre nel documentario realizzato da Amnesty International (vedi sotto).
«Quando siamo arrivati in Turchia ho visto su Internet e Youtube che i confini erano aperti per i disabili, donne incinte e anziano, ma quando siamo arrivati a Chios mi hanno detto che erano chiusi per tutti», racconta Alan. Lo scorso 7 marzo la famiglia si è finalmente ricongiunta in Germania.
«Non abbiamo alcun dato sui disabili richiedenti asilo», dice Erasmo Palazzotto, vicepresidente della commissione Esteri della Camera. «Sui migranti regolari si potrebbero raccogliere a posteriori sui dati di uffici di collocamento, Inail, sostegno nelle scuole, ma il nostro sistema di accoglienza non sa gestire la disabilità, a parte lo Sprar, ma si basa per oltre il 70% su centri di accoglienza straordinari, fuori controllo, in cui le patologie non sono citate, non c’è assistenza per persone che avevano chiesto di andare in ospedale».
E così accade che «si sommano due discriminazioni, verso i migranti e verso i disabili, in contrasto con la Convenzione di Ginevra, i trattati internazionali e la nostra Costituzione, per il tempo di trattenimento, l’uso della forza per il rilevamento delle impronte e si viola l’integrità fisica delle persone. Non sappiamo quanti siano i richiedenti asilo disabili, non abbiamo strumenti specifici per dare assistenza alle persone vulnerabili».
Qualche dato
È difficile estrapolare dati specifici sugli stranieri disabili, perché le statistiche sono generalmente calibrate sull’una o l’altra caratteristica. Si sa che nell’anno scolastico 2013/2014 gli alunni stranieri con disabilità delle scuole statali e non statali, di tutti gli ordini e gradi, erano 26.626, il 3,3% degli alunni stranieri totali, l’11,5% degli alunni con disabilità.
Nel 2013 gli extracomunitari con disabilità iscritti agli elenchi unici provinciali del collocamento obbligatorio erano 13.108 su 676.775 iscritti complessivi, pari all’1,9% del totale. Di questi il 37,4% sono donne (4.906) (fonte Fish).
Si sa, inoltre, che fra gli ospiti dei presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari nel 2012 c’erano 338 minori stranieri (13%), 846 adulti (1,7%) e 278 anziani non autosufficienti (0,1%), mentre si stima che il dato Inps relativo alle pensioni di invalidità civile (12.493) e alle indennità di accompagnamento (6.764) erogate a cittadini extracomunitari sia largamente inferiore al numero reale.
Disabilità e migranti a convegno
L’occasione per fare il punto sull’argomento è stato il convegno “Disabili & Migranti: alla ricerca di un’integrazione possibile e necessaria”, organizzato in collaborazione dalla testata online Ghigliottina e da “Moby Dick”, hub culturale del quartiere Garbatella di Roma che ha ospitato l’evento.
«I migranti non vengono considerati persone con diritti, devono mettersi in regola ed essere in buona salute, con buona pace delle disabilità congenite o risultanti dal terribile viaggio per arrivare in Europa», sostiene Gianluca Gafforio, del coordinamento nazionale Rifugiati e migranti di Amnesty International – Italia. Gafforio critica l’impostazione complessiva messa in piedi per risolvere la situazione:
«Ci preoccupa l’approccio europeo, che esternalizza il problema stringendo accordi con paesi considerati sicuri come Libia, Turchia o Sudan, il cui accordo è segreto e non ne sappiamo i contenuti».
Come la storia di Selam, diciottenne eritrea, che intraprese il viaggio della speranza per raggiungere la famiglia in Svezia: esplose una gomma del fuoristrada che la trasportava nel deserto e nell’incidente si ruppe la spina dorsale e fu abbandonata a Tripoli. «Abbiamo provato con l’Ambasciata italiana, l’unica ancora aperta, ma questa ha rifiutato il visto umanitario – racconta Palazzotto – e lei è arrivata con un barcone, ormai disabile per le violenze subite».
Non ne parla nessuno
«Se le storie non ci arrivano la responsabilità è dei media, l’informazione è una merce, garantita e tutelata come diritto, ma bisogna tenere conto di alcuni fattori: i giornali danno solo versioni emotive dei fatti, come se il pubblico fosse fatto di bambini abituati a caramelle molto dolci, il che non è vero», analizza Alberto Spampinato, giornalista e direttore dell’osservatorio Ossigeno per l’informazione.
Per Spampinato, inoltre, «gli editori sono garanti di interessi particolari, non sempre trasparenti, in un paese in cui l’economia è distorta da organizzazioni criminali e in cui anche istituzioni pubbliche, o di pubblico servizio, come quelle di accoglienza, hanno un funzionamento spesso illegale. A ciò aggiungiamo le minacce ai giornalisti, che hanno visto un’impennata quest’anno, con 117 episodi nei primi quattro mesi, 46 solo nel Lazio. Dove per non riesce né il pubblico né il privato, il volontariato deve fare qualcosa».
L’accoglienza dei profughi nei piccoli borghi
Chi ha unito pienamente i due temi, in cui emergono la difficoltà di spostamento e le barriere fisiche e mentali, sono i ragazzi della “Comunità XXIV luglio handicappati e non“, de l’Aquila, che hanno realizzato un documentario che affronta proprio il fenomeno dell’accoglienza dei migranti nei piccoli borghi del centro Italia, “I migrati”.
«Il nome della nostra comunità viene dalla data in cui abbiamo fatto la nostra prima gita al mare tanti anni fa – ricorda Benito – e abbiamo voluto raccontare le storie di chi arriva dal mare». «Migrati, rifugiati, si fa tanta confusione con le parole, proprio come avviene per i disabili, o handicappati: le parole sembrano gusci, bisogna uscirne per raccontare», commenta Francesco Paolucci, regista del documentario.
Fonte: Redattore Sociale
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