Totò Riina tra carcere e malattia
La sentenza della Cassazione riapre il dibattito sulla "morte dignitosa" per il capomafia
La notizia ha subito fatto il giro dei giornali: la corte di Cassazione apre alla scarcerazione di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, viste le sue condizioni mediche precarie. Anche lui, si legge, ha diritto a una morte dignitosa e per questo l’avvocato ne ha chiesto il differimento della pena o, in subordine, la detenzione domiciliare. Oltraggio alla memoria delle vittime di mafia o decisione che segna il discrimine tra le bestie e lo stato di diritto?
Schierarsi tra queste due fazioni non è possibile: non è una questione di giustizialisti o manettari, non è affare per guelfi o ghibellini. Il problema, così, è posto male. Infatti la Cassazione con la sua sentenza ha solo accolto il ricorso dell’avvocato del boss dei corleonesi contro il diniego alla sua richiesta di scarcerazione emesso dal tribunale di sorveglianza di Bologna, che basava il suo no sulla pericolosità dell’individuo, pur constatandone il grave stato di salute. Una motivazione debole e contraddittoria, secondo i giudici del Palazzaccio. Il tribunale bolognese non avrebbe infatti preso in esame «il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico».
Questo, però, non implica che alla prossima udienza, prevista per il 7 luglio, i giudici di Bologna debbano necessariamente rivedere la loro prima decisione. Certo, se vorranno rigettare la richiesta della Cassazione dovranno argomentare la decisione in modo più convincente. Dovranno spiegare perché Riina è ancora pericoloso.
L’imprecisione su cui si basa il dibattito pubblico in questo momento, però, non può sviare dalla domanda principale: il diritto alla morte dignitosa vale anche per un uomo condannato a 17 ergastoli, che ha ordinato di sciogliere bambini nell’acido, che ha ordinato stragi? Vale per Totò Riina, ancora boss di Cosa Nostra? E che cos’è, poi, la “morte dignitosa”? Il diritto inalienabile di ogni individuo è alle cure mediche adeguate e a riceverle nel luogo idoneo. Anche restando in regime di carcere duro.
Diritti usati come armi
C’è un’ipocrisia da superare: la “morte dignitosa” non è uguale per tutti. La si invoca a discrezione del potere di chi la chiede. La questione diventa dibattito pubblico solo in pochi casi. Ce ne sono di detenuti morti in cella tra silenzio ed abbandono. Di ultraottantenni costretti che si spengono così, in silenzio. Allora per Riina non è più una questione di pietas, di difesa dei valori umani che differenziano lo stato di diritto dalla giungla selvaggia.
Il diritto, in questo caso, diventa solo un’arma impropria del potere. Il suo. Il regime duro in carcere ha lo scopo di impedire comunicazioni con l’esterno. Invece il detenuto speciale Salvatore Riina quando parla nella sua ora d’aria comunica con il mondo. Minaccia il pm Nino Di Matteo, il fondatore di Libera don Luigi Ciotti. Anche quando i processi nei suoi confronti non si muovono, anche quando a nessuno – tragicamente – importa più di Cosa Nostra. Ma invece che limitarsi ad aprire fascicoli d’indagine e mantenerli nella più totale riservatezza, i discorsi di Riina diventano di dominio pubblico. Per quale motivo? U curtu deve continuare a far paura? Visti i torbidi legami tra servizi segreti deviati e Cosa Nostra, è un fatto che non può lasciare indifferenti.
Perché Riina continua a comunicare? Perché suo figlio può presentare un libro sulle sue gesta in tv senza contraddittorio? Perché gli altri capimafia non ricevono un trattamento simile, anche quando ciò che hanno commesso è più vicino nel tempo?
Un giorno, forse, l’Italia sarà in grado di aprire la cella di un super boss al 41 bis per motivi di salute, di portarlo nel suo paese natale e mostrarlo in tutta la sua infermità fisica senza timore che questo susciti ancora la venerazione dei “soldati” e della zona grigia, ma al contrario sapendo che l’umanità della malattia può suscitare una scala di sentimenti che possono stravolgere l’immaginario mafioso: commozione, dolore, pena. Tonalità di emozioni che potrebbero anche far vacillare i credo della mafia e il suo posticcio sistema di pseudo valori.
Ma quel giorno, purtroppo, è ancora lontano, perché il dibattito sulla giustizia è ancora ostaggio delle fazioni pro o contro magistrati, perché la retorica con cui si parla di giustizia è ancora quella costruita dal sistema berlusconiano. La giustizia, adesso, è questione di potere e non di diritto. Per tutto questo, quel super boss non può essere Totò Riina.
Il caso Provenzano
La giustizia – perché sia tale – deve essere uguale per tutti. E non è questo il caso. Bernardo Provenzano, il boss dei corleonesi che ha preso il posto di Riina dopo l’arresto del 1993, era in condizioni fisiche peggiori, ma è morto all’ospedale San Paolo di Milano in regime di 41 bis. Aveva denunciato percosse nel carcere di Parma, ma l’inchiesta era stata archiviata perché non si erano trovati riscontri alle sue accuse. Uscire da una cella, per lui, non ha significato evitare il carcere duro.
In quel caso, per altro, il 41 bis è stato rinnovato per motivi di sicurezza: Provenzano non sarebbe sopravvissuto, viste le voci che dal 2014, due anni prima della sua morte, lo davano come possibile nuovo collaboratore di giustizia. Questo suo percorso lo ha reso, forse, meno “potente” e meno “mafioso”.
Totò Riina non ha mai avuto nemmeno un cedimento, è sempre stato il boss sanguinario, lo stratega dello stragismo, doppiogiochista, capace di parlare anche con pezzi deviati dello Stato. Continua a essere un uomo-simbolo di Cosa Nostra. Questo lo rende tristemente potente e pericoloso: non siamo in grado di annientare la sua figura di capomafia. Non lo si potrà mai ridurre a un anziano al tramonto della sua vita.
La legge 231 del 1999, scrive il portale La legge per tutti, dice che «“quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative” il detenuto malato ha diritto alla scarcerazione». E così è accaduto a Provenzano: lo Stato gli ha garantito tutte le cure necessarie, lo ha fatto morire in un letto di ospedale, ma non gli ha mai tolto il regime di isolamento dovuto alla situazione di pericolosità che lo circondava. E Riina, purtroppo, continua ad essere pericoloso. Non è una questione di calpestare la memoria di qualcuno, ma di guardare la realtà per quello che è: per quanto vecchio e debole, Riina può continuare a fare del male.