L’Egitto contro gli attivisti

Vita dura per i difensori dei diritti nel paese di Al Sisi: i casi di Azza Soliman e Ahmed Douma

Alzare la testa, protestare e chiedere giustizia di questi tempi può costare molto caro in Egitto. Lo stesso Egitto in cui sono stati riportati 20 profughi sbarcati a Lampedusa settimana scorsa nonostante volessero chiedere asilo. Lo dimostra una nuova legge approvata il 24 maggio dal governo del paese che «criminalizza le organizzazioni non-governative e limita fortemente il loro operato», come ha denunciato un gruppo di ong fra le quali Un ponte per, Arci, Human Rights Watch e la Federazione internazionale dei diritti umani (Fidh). E lo ricorda la vicenda di Giulio Regeni, il giovane dottorando italiano rapito e ucciso a Il Cairo. Così come i casi di Azza Soliman e di Ahmed Douma, i due protagonisti di due diverse campagne portate avanti in questo periodo da Amnesty International.

Azza Soliman è tra i fondatori del “Centro per l’assistenza legale delle donne egiziane” e “Avvocati per la giustizia e la pace”.

In questo modo, sottolinea Amnesty,

«Azza dà coraggiosamente voce a chi ha subito tortura, detenzione arbitraria, violenza domestica o stupro in Egitto» e «con il suo lavoro fornisce supporto legale e lezioni di alfabetizzazione alle donne povere e alle sopravvissute agli abusi».

Azza è stata recentemente arrestata, interrogata, infine rilasciata e ora deve affrontare l’accusa di aver diffamato l’Egitto per aver dichiarato che le donne devono affrontare lo stupro nel suo paese. E per aver osato tanto, ad Azza è stato vietato viaggiare, i suoi beni sono stati congelati e, soprattutto, rischia una condanna fino a 15 anni di carcere.

Per l’organizzazione non governativa che difende i diritti umani nel mondo, quello di Azza non è un caso isolato. Tutt’altro.

«Come lei, altri difensori e difensore dei diritti umani in Egitto a causa del loro coraggioso lavoro sono il bersaglio di campagne diffamatorie da parte dei media filo-governativi. Classificati come spie e considerati una minaccia per la sicurezza nazionale, sono sorvegliati dal governo e subiscono continue molestie da parte delle forze di sicurezza».

Inoltre, molti starebbero affrontando il carcere a seguito della vicenda giudiziaria conosciuta come “Caso 173”, ossia, si legge sul sito di Amnesty, «l’inchiesta aperta nel 2011, dopo la caduta di Mubarak, il cui intento è “perseguire tutte le organizzazioni non governative accusate di ricevere finanziamenti dall’estero”».

Per tutti questi motivi, dunque, la ong ha lanciato una petizione per chiedere che tutte le accuse contro Azza, e contro gli altri difensori dei diritti umani egiziani, siano ritirate subito e senza condizioni, così come siano revocati il divieto di viaggiare e il congelamento dei beni della donna.

In isolamento da tre anni e mezzo

A confermare i rischi che si corrono in Egitto se si parla troppo apertamente di certe questioni c’è anche la vicenda di Ahmed Douma. Un attivista politico locale che, secondo quello che riferiscono la sua famiglia e i suoi legali, si trova in regime di isolamento da oltre tre anni. Una violazione del diritto internazionale, che prevede che la detenzione in isolamento non possa prolungarsi per oltre 15 giorni.

«La sua prolungata detenzione in isolamento ed il limitato accesso alle cure mediche sono trattamenti crudeli, inumani e degradanti», scrive ancora Amnesty International.

Secondo le ultime informazioni disponibili, il 4 febbraio scorso il tribunale amministrativo del Cairo aveva rinviato la sua udienza, per l’ennesima volta, al 16 maggio. Il 25 maggio la corte di Cassazione ha quindi accettato il suo appello e ordinato un nuovo processo. In questo caso, Ahmed è accusato di aver insultato la magistratura ed è stato condannato a tre anni di carcere. L’uomo è detenuto dal 3 dicembre 2013 nel carcere di Tora, a sud del Cairo, accusato in altri tre casi per i quali sta presentando l’appello.

Una storia giudiziaria lunga otto anni

Secondo la ricostruzione fatta dalla ong, Ahmed Douma è stato processato e arrestato più volte a causa della sua attività. Avrebbe avuto guai giudiziari già nel 2009, poi durante la presidenza di Hosni Mubarak nel 2012, quindi sotto il Consiglio supremo delle forze armate nel 2013 e, infine, nel corso della presidenza di Mohamed Morsi, «quando un tribunale di Tanta lo condannò a sei mesi di prigione per “offese al presidente”».

L’ultimo arresto risale al 3 dicembre 2013, come detto, con l’accusa di proteste illegali e assalti contro la polizia. Da allora, Ahmed è detenuto. Il 22 dicembre dello stesso anno, «il tribunale per il fallimento Abdeen del Cairo ha condannato Ahmed Douma, insieme a due altri attivisti politici, Ahmed Maher e Mohamed Adel, a tre anni di carcere a causa della partecipazione a proteste non autorizzate».

A inizio 2017, gli altri due sono stati rilasciati in libertà vigilata, ma «per un periodo di tre anni dovranno essere detenuti nella stazione di polizia del loro quartiere per 12 ore ogni giorno».

Ad Ahmed, invece, è andata peggio. Il 9 dicembre 2014, infatti, il presidente della Corte penale del Cairo lo ha condannato a tre anni di prigione e a pagare una multa pari a 10 mila lire egiziane (circa 550 euro), con l’accusa di oltraggio alla corte. In questo caso, come detto, nei giorni scorsi la Cassazione ha ordinato un nuovo processo.

Ma non è tutto. «Il 4 febbraio 2015 – denuncia Amnesty – lo stesso tribunale ha condannato l’attivista, insieme a 229 persone, al carcere a vita, pari a 25 anni di carcere, e a una multa di 17 milioni di lire egiziane (circa 940.000 euro), dopo averli giudicati colpevoli di aver partecipato a una protesta violenta nel mese di dicembre 2011». A questo punto la speranza di essere liberato sta tutta nei ricorsi presentati alla magistratura.

Prigione senza diritti

Oltre alle motivazioni che hanno portato alla sua condanna, sono le condizioni di detenzione dell’attivista che stanno facendo il giro del mondo. La famiglia di Ahmed, infatti, denuncia che la sua cella si trova proprio di fianco a una fogna, con tutto ciò che questo significa in termini di puzza e di insetti.

Inoltre, denuncia ancora Amnesty, «non gli è consentito di lasciare la sua cella per più di due ore al giorno. Durante questo periodo può solo fare esercizi da solo, quando gli altri detenuti hanno già lasciato il cortile». Inoltre, pare che all’uomo non sia concesso andare nel luogo di culto del centro di detenzione, né nella biblioteca.

Ahmed sarebbe anche ammalato. «Da più di un anno soffre di dolore al ginocchio e, negli ultimi due mesi, di dolori alla schiena. La famiglia ha aggiunto che, a seguito della detenzione in isolamento, soffre di insonnia e di mal di testa cronici a causa della mancanza di sonno. Malgrado i medici della prigione raccomandino da oltre un anno che Ahmed Douma sia inviato in un ospedale fuori dalla prigione, l’amministrazione carceraria continua ad ignorare questa richiesta», scrive l’organizzazione non governativa.

Per tutti questi motivi, dunque, la famiglia dell’uomo si è rivolta al Consiglio nazionale per i diritti umani, al Comitato per i diritti umani del parlamento, al procuratore generale e al ministero degli interni ma, a quanto pare, o oggi non ha ancora ricevuto alcuna risposta.

Isolamento oltre ogni limite

«L’amministrazione penitenziaria lo ha tenuto in isolamento in violazione dei regolamenti interni delle prigioni. È stato tenuto in isolamento per oltre tre anni. Non è stato formalmente informato delle ragioni del suo isolamento, né è stato garantito il suo diritto a contestare le accuse che giustificano l’isolamento».

Amnesty denuncia dunque l’irregolarità di questa situazione. Aggiungendo che l’amministrazione penitenziaria del carcere di Tora non ha fornito neppure la sorveglianza medica richiesta, contrariamente a quello che avrebbe dovuto fare in base ai regolamenti dello stesso carcere.

E non è ancora tutto. Le autorità egiziane, infatti, starebbe violando la legislazione internazionale anche quanto ai periodi massimi di detenzione in isolamento ammessi. Mentre i regolamenti interni delle prigioni, a partire dallo scorso 16 febbraio, ne limitano la durata a sei mesi, infatti, «le regole delle Nazioni Unite sullo standard minino per il trattamento dei prigionieri (le regole di Nelson Mandela) proibiscono l’uso di detenzione in isolamento prolungata, definita come detenzione in isolamento per un periodo di tempo superiore a 15 giorni consecutivi, insistendo che in nessuna circostanza le restrizioni o le sanzioni disciplinari posso giustificare la tortura o altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti», conclude l’organizzazione.

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