«Perché parti per la guerra, se non ci devi andare?». Attorno a questa domanda fondamentale si sviluppa “See you in Chechnya”, un documentario del 2013 della casa di produzione Petit à Petit proiettato al Festival dei diritti umani di Milano terminato il 7 maggio. Un film che arriva diretto come un pugno in faccia e che ha la dote non comune di svuotare di retorica la figura del reporter di guerra, mostrandola – al contrario – nella sua fallace (e un po’ folle) umanità. Il documentario ha un percorso circolare: si apre a Shatili, il villaggio che divide la Georgia dalla Cecenia, e a Shatili si conclude, lasciando l’interrogativo ancora scolpito nella mente dello spettatore.
Il regista e fotografo Alexander Kvatashidze è il protagonista di un impegnativo viaggio tra le pieghe dell’animo umano e che trova in Cecenia la sua realizzazione concreta. E diventa – in fondo – un viaggio alla ricerca della banalità del male e della fascinazione che questo provoca. Lo racconta lo stesso Kvatashidze in voice over, con tono distaccato, quasi senza voglia. A fare da contrappunto al suono della voce del narratore-protagonista, si sente il click del proiettore attraverso il quale Kvatashidze rivive la sua esperienza fotografica in Cecenia. Spesso foto “sporche”, crude come il resto del film.
Guerra e amore
La guerra, in una prima fase, per il regista è sinonimo di amore. L’unica ragione per varcare quel confine dalla sua sicura Georgia alla pericolosa Cecenia, è la fotografa francese di cui si innamora, nel 1999. Il sentimento annacqua la morte e il dolore che devastano la Cecenia. Kvatashidze si racconta come in trance: scattare, osservare, violare l’umanità – senza pudore – diventa quotidiano.
Della guerra, alla fine di quest’esperienza, all’autore resta solo un senso di sospensione: non esiste tempo, spazio, limite. Tutto sta oltre, in una dimensione paranormale. Tutto può cominciare e finire senza che nemmeno ce ne si possa rendere conto. È per questo che ci si sale su un volo da Parigi per venire in Cecenia? È per questo che si cerca la guerra?
La Georgia
Mentre l’autore se lo domanda, lei – la guerra – entra in Georgia. In cinque giorni (in questo caso la dimensione del tempo è ben definita) si porta via centinaia di amici, parenti e conoscenti. La sensazione della guerra in casa è ben diversa, ben più materica. Ma la guerra è già entrata nella mente di Kvatashidze. Gli ha portato amicizie fuori dall’ordinario, che lo costringeranno a soffrire.
Per quanto cerchi di allontanarla, lei ritorna ossessivamente, portandosi appresso sempre solo un bagaglio di morte. In particolare, ce ne sono due che sconvolgono la vita di Kvatashidze: quella del reporter francese Brice Fleutiaux, sopravvissuto a giorni di detenzione in Cecenia ma non al vuoto che gli era rimasto dentro, e Antonio Russo, videogiornalista che – forse – aveva scoperto un po’ troppo.
Alla ricerca del guru
Da quel punto in poi, “See you in Chechnya” è la ricerca di un guru. Di qualcuno che sappia spiegare perché l’uomo sente tanta attrazione per la morte. E i risultati sconvolgono nella loro tragica banalità: si riducono alle forme più estreme di essere uomo, molto più che giornalista o fotografo. Ci sono quelli che hanno sacrificato tutto (e in fondo, in nome di cosa?). Quelli che hanno trovato la risposta nella solitudine. Quelli che hanno smesso di avere paura. Quelli che hanno dovuto rispondere al bussare della normalità della vita e fare un passo indietro. Quelli che cercavano solo una scusa per sentirsi meglio degli altri.
Chi emerge come il vero guru, al contrario, è proprio il fragile Kvatashidze, che ha avuto il coraggio di mettere il suo intreccio di passioni su pellicola, senza filtri e senza rete. Il film è tanto potente da far sorgere un dubbio persino su quale sia la libertà di stampa che vogliamo difendere. Quella che guarda dallo spioncino la sofferenza della guerra? Quella che trova un certo compiacimento nel guardare la guerra?
Domande, queste, che testimoniano il vero desiderio di esplorare il tema della libertà di stampa. Come ogni libertà, quella di stampa va difesa ed esercitata con senso del limite. E non tutti si chiedono fin dove arrivi.