Il difficile mestiere di essere mamma

Save the children parla di donne costrette a lasciare il lavoro e con meno diritti se sono al Sud

Sono costrette costrette a rinunciare al lavoro a causa di un welfare che non riesce a sostenere chi decide di mettere al mondo un bambino. Diventano madri sempre più avanti negli anni. E se sono così fortunate da vivere al Nord bene, altrimenti sono dolori. È questo il quadro che emerge dalla seconda edizione del rapporto “Le equilibriste – la maternità tra ostacoli e visioni di futuro sulla condizione materna in Italia, diffuso ieri da Save the children in vista della festa della mamma di domenica 14 maggio (su questo argomento leggi anche “Mamme tra mobbing e discriminazioni“).

I tre indicatori utilizzati nell’elaborazione dell’Indice delle madri sono cura, lavoro e servizi per l’infanzia e sottolineano come la scelta di diventare madre in Italia possa pregiudicare la condizione sociale, professionale ed economica di una donna a seconda della regione nella quale viene messo al mondo un figlio.

LA CLASSIFICA

Il Trentino-Alto Adige, come l’anno scorso, si conferma la regione ideale per una mamma, seguita da Valle d’Aosta, Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte. Dall’altra parte della classifica, invece, si incontra la Sicilia, che ha registrato la performance peggiore a livello nazionale. Poco meglio hanno fatto Calabria (19esima), Puglia (18esima), Campania (17esima) e Basilicata (16esima).

«La condizione delle madri in Italia è ancora critica. Il divario tra Nord e Sud è drammatico e inaccettabile. E in ogni caso, anche nelle regioni del Nord, siamo ancora lontani da un modello virtuoso che renda la maternità una risorsa piuttosto che un impedimento», commenta Raffaela Milano direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children.

LA CURA

Per quanto riguarda la cura, la Lombardia risulta la regione più virtuosa, e pure quella che, assieme a Umbria (9°) e Calabria (17°), ha ottenuto un forte miglioramento legato per lo più a un abbassamento significativo dell’indice di asimmetria, ossia della distribuzione della cura e del lavoro familiare tra donne e uomini.

In generale, questa analisi prende in considerazione un insieme di indicatori che mettono in corrispondenza i tassi di fecondità delle donne con la distribuzione interna del lavoro di cura del contesto familiare diviso per entrambi i partner con una occupazione.

La Sicilia mostra segni di miglioramento esclusivamente per quanto riguarda proprio l’area della cura, per la quale occupa una posizione intermedia (12°).

SERVIZI PER L’INFANZIA E LAVORO

L’area dei servizi per l’infanzia, cioè quella che monitora la competitività delle regioni in base agli asili nido e ai servizi integrativi e innovativi per la prima infanzia, conferma Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige come migliori. Emblematico il caso della Toscana che, rispetto alle altre due aree di indicatori, in quella dei servizi all’infanzia si posiziona tra le prime cinque regioni virtuose. L’Emilia Romagna (9°) invece, rispetto al 2016 peggiora la sua condizione sui servizi, scendendo in classifica di tre posizioni.

I dati sull’impiego femminile rispecchiano a grandi linee l’indice generale, con Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Emilia-Romagna e Lombardia nelle prime quattro posizioni. «Questo mostra come, anche nelle regioni dove l’occupazione femminile è in aumento, i territori non riescono a essere efficaci nel colmare il divario di genere», scrive l’organizzazione.

Dall’analisi emerge come l’occupazione femminile rappresenti ancora una delle criticità strutturali. Le disparità salariali, i part-time, le riduzioni dell’orario di lavoro, i contratti precari sono spesso le situazioni alle quali le donne devono adattarsi per non perdere il posto. «In questo quadro, la conseguenza più diretta è un abbassamento del livello di qualità della vita che spesso pregiudica scelte familiari e riproduttive», scrivono i ricercatori. Inoltre, rispetto ai loro colleghi uomini, in Italia le donne vengono pagate meno, una condizione che le rende vulnerabili e a rischio di povertà.

IL CONFRONTO CON L’ESTERO

Rispetto ai 28 paesi dell’Unione europea, l’Italia si colloca alla 27esima posizione, seguita solo dalla Grecia per quanto riguarda l’occupazione delle donne tra i 25 e i 49 anni.

A livello mondiale, sul divario di genere il nostro paese si posiziona al 50esimo posto su 144, con una flessione rispetto al 2015, quando era in 41esima posizione. Un risultato negativo che riguarda soprattutto gli indicatori relativi al mercato del lavoro e alle opportunità economiche per le donne, che lo vedono crollare al 117esimo posto.

La ricerca mette in evidenza che «in Italia, le donne in questa fascia d’età sono occupate per il 57,9% contro il 77,9% di uomini della stessa età» e «con l’aumentare del numero di figli, aumentano anche le possibilità di rimanere disoccupate».

In Italia, infatti, si passa da un tasso occupazionale del 58,4% per le donne con un figlio (72,5% la media Ue), al 54,6% per quelle con due bambini (il 71% nella Ue) fino al 41,4% per quelle con tre o più figli (54,9% la media Ue). Gli uomini, invece, registrano tassi occupazionali rispettivamente dell’82,1%, dell’86,7% e dell’82,9.

LA QUESTIONE WELFARE

Mentre la popolazione tende ad invecchiare, l’età delle neomamme aumenta in tutta Europa. L’Italia occupa il penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, con una media di anni al parto di 31,7 contro quella europea di 30,5. In diminuzione nel nostro Paese le mamme sotto i 18 anni, che nel 2015 sono 1.739 contro le 1.981 dell’anno precedente.

In Italia molte donne, spesso sole, si trovano a dover sopperire a un welfare carente e a doversi occupare di genitori anziani e di figli piccoli in un’età sempre più adulta. Sono circa 8 milioni – ricorda Save the children – le madri tra i 25 e i 64 anni che convivono con figli under 15 o tra i 16 e i 25 anni ancora economicamente dipendenti.

Le incombenze della cura familiare si concentrano maggiormente sulle mamme con il figlio più piccolo sotto i 5 anni (2,7 milioni), su quelle con il figlio più piccolo tra i 6 e gli 11 anni (2 milioni) e su quelle con il figlio più piccolo oltre i 12 anni (3,2 milioni).

«Se si sommano a questi dati quelli sulla cura di persone anziane, il risultato è allarmante: la media complessiva del lavoro di cura di bambini 0-4 anni e anziani over 80 che grava sulle donne in Italia tra i 15 e i 64 anni è del 33,8% e aumenterà nel 2036 arrivando al 46,2 (a meno che, come è auspicabile, non si rafforzi nel frattempo la rete di welfare e cambi in modo significativo la distribuzione dei carichi di cura tra donne e uomini)», si legge ancora nel rapporto.

Si tratta di un circolo virtuoso che passa di donna in donna. «Le donne italiane, a causa del loro ingresso nel mondo del lavoro e del mancato welfare a loro supporto, sono costrette a delegare altre donne spesso provenienti da Paesi economicamente meno avanzati, la cura di figli ed anziani», scrive l’organizzazione, e «queste stesse donne sono costrette a lasciare la propria famiglia nel Paese di provenienza e a delegare a loro volta altre donne all’accudimento dei bambini o degli anziani».

LE POLITICHE

Secondo Raffaela Milano, «gli interventi a sostegno della maternità, della natalità, sia inerenti al welfare che ad altri strumenti di conciliazione, sono fondamentali per dare modo alle donne di bilanciare la vita privata e familiare con quella lavorativa, un equilibrio che purtroppo, in Italia, sembra ancora un lontano traguardo». Nello specifico, «congedi parentali ai padri, lavoro agile, accessi al nido e ad altri servizi di assistenza all’infanzia, sono supporti essenziali per le famiglie».

Nell’Unione europea – sottolinea ancora il rapporto – i padri tendono ad usufruire del congedo parentale ancora poco con medie che vanno dal 20% al 30% (in Italia si arriva al 10%). In Germania la parental allawance ha permesso al 34% dei padri di passare a casa in media 3,1 mesi nei primi anni di vita del figlio. In Italia il congedo di paternità prevede solo due giorni di congedo obbligatorio più altri due facoltativi. Con la legge di bilancio del 2017 è previsto un ulteriore giorno di congedo retribuito al 100%, «ma molto va ancora fatto per incentivare il ruolo degli uomini nel lavoro di cura, a partire dallo sviluppo di un forte impegno a livello culturale e legislativo per aumentare il coinvolgimento dei padri nel lavoro familiare».

Il part time, spesso unica alternativa per le donne occupate che decidono di diventare mamme, se da una parte garantisce la possibilità di prendersi cura dei figli, dall’altra limita la crescita professionale relegando spesso le donne a ruoli marginali o più bassi rispetto agli uomini. In Italia, più di una donna su 3 (34,6%) ne usufruisce, contro una media Ue del 30%.

Nella conciliazione tra vita e lavoro per le donne, ruolo fondamentale riveste l’accesso al nido e ai servizi di assistenza all’infanzia. E diversi studi – sottolinea il rapporto – evidenziano come anche lo sviluppo del bambino sia strettamente legato alla frequenza dell’asilo nido. Ebbene, solo 9 paesi nella Ue hanno raggiunto l’obiettivo del 33% di bambini sotto i 3 anni che frequentano il nido. L’Italia è di poco sopra il 27% tra nidi pubblici e privati. «Il dato che riguarda l’utenza effettiva dei soli asili pubblici in Italia è preoccupante: la media nazionale è solo del 12,9%».

Riguardo agli interventi degli ultimi anni a sostegno delle famiglie per combattere le difficoltà di chi decide di mettere al mondo un figlio, Save the children sembra essere piuttosto critica. «Il più delle volte si tratta di bonus e misure una tantum che non rafforzano la rete strutturale dei servizi. L’organizzazione auspica, invece, che sia garantito a tutti i bambini un servizio educativo, con la necessaria copertura dei posti e adeguati standard qualitativi».

Ma ancora non basta. «È necessario, inoltre, sostenere il rafforzamento delle competenze femminili, intervenendo sul divario di genere ancora presente nei percorsi educativi e scolastici, per quanto riguarda in particolare le materie scientifiche, incentivando il lavoro di cura dei padri e rafforzando il sistema di tutela delle lavoratrici attraverso strumenti di conciliazione, quali flessibilità degli orari e lavoro agile. A tal fine è necessario introdurre un sistema di certificazione per valutare le politiche aziendali, premiando con incentivi fiscali le migliori prassi che favoriscono la conciliazione tra famiglia e lavoro».

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