Aria pesante per i giornalisti turchi

Ahmet Insel, editorialista del quotidiano Cumhuriyet: «La Turchia è uno Stato arbitrario»

Alla Turchia sono bastati dodici mesi per cambiare volto. Appena un anno fa, un giornalista che lavora nel paese per l’agenzia di stampa Associated Press si era permesso di mentire alla polizia di Istanbul per far entrare due colleghi stranieri nella zona rossa spacciandoli per cameraman. Lo aveva fatto il 1° maggio, una data che da quelle parti si lega al massacro di 34 lavoratori in piazza del 1977 o all’occupazione di Gezi Park del 2013, in cui qualcuno ha visto l’inizio di una “primavera ottomana”, proseguita poi con i 200 arresti più un morto dello scorso anno.

Ebbene, al giornalista non è successo niente, nel 2016. Ma che cosa sarebbe accaduto se si fosse comportato così lunedì scorso, il 1° maggio 2017? «La verità è che non lo sappiamo. E questo “non sapere” è il rischio maggiore per i reporter, i cronisti, i professori turchi». A dirlo è Ahmet Insel, editorialista del quotidiano Cumhuriyet, dal palco del Festival dei diritti umani di Milano, durante l’evento organizzato in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa con la collaborazione della Federazione nazionale della stampa italiana e Articolo21, “Il pericolo non dovrebbe essere il mio mestiere. Il giornalismo tra censure, minacce e guerre”.

È proprio la Turchia, quella del “satrapo” Erdogan, come lo hanno ribattezzato le cronache, a essere al centro dell’attenzione di questo dibattito. Perché agli europei interessa, perché le alleanze geopolitiche esistono e perché a memoria recente non si ricorda un’involuzione così rapida nel seppellire alcune libertà dentro i confini di un paese democratico.

Una parabola fissata anche su pellicola cinematografica: nella serata di domenica 7 maggio, al Festival sarà proiettato Dönüş-Return, il documentario girato da Valeria Mazzucchi che segue le avventure di un corrispondente di Radio France Internationale a Istanbul nelle settimane che precedono una dolorosa decisione, quella di abbandonare il paese dopo vent’anni di lavoro e residenza.

«Voi avete visto gli anni di piombo negli anni Settanta», ha detto Ahmet Insel rivolgendosi alla platea italiana, «anche io li ho visti negli anni Novanta nel mio paese. Non ho ancora capito se gli preferisco il regime militare». Una dittatura? «No. La Turchia non è né una dittatura né uno Stato di diritto. È uno Stato arbitrario». Dove dentro le redazioni, ad esempio, non è chiaro cosa si possa o non si possa scrivere, twittare, leggere. Dove è impossibile auto-regolarsi sulla base di una censura esplicitata dalle autorità.

Non sono chiare le accuse che sono mosse ai giornalisti arrestati, «anche se sempre più di frequente viene utilizzata l’arma della propaganda filo-terroristica. È il concetto stesso di terrorismo a essere cambiato». Una nazione dove «il Governo che gode di una giustizia asservita può chiudere una testata sulla base di un parere. Oppure può emettere delle liste nere di firme sgradite da consegnare agli editori». Che si regolano di conseguenza.

La situazione di oggi ha profonde radici nel passato: nessuno si oppone più perché già 25 anni fa nelle redazioni e nei comitati interni si è fatta piazza pulita dei sindacati di categoria, creando i presupposti per questa involuzione autoritaria. Ed è qui che si riscopre una quotidianità della censura: fatta non solo di 150 arresti recenti, ma anche di 1.500 giornalisti disoccupati. Dove il vero ricatto morale diventa il soldo e la vecchia regola di colpirne uno per educarne cento.

E poi c’è la guerra, quella «che ti obbliga a schierarti, a prendere posizione, a contestare, mobilitare l’opinione pubblica» e, in ultima istanza, a «non fare del giornalismo imparziale ma anzi, un giornalismo dell’eccezione per un’età dell’eccezione». Mentre la guerra vera bussa dalla frontiera siriana e s’insinua a Gaziantep, nelle moschee di Ankara o nelle chiese di Smirne.

E l’altra guerra, mascherata, che colpisce internamente, quella fra polizia, esercito e Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) che ha fatto 2.000 morti solo dal 2015. Tanti civili. Tanti cronisti locali che non hanno il brand della blasonata Associated Press nel taschino o la nazionalità giusta per essere protetti da «violenze che nessuno racconta» perché perpetrate nella profonda provincia.

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