Censura fa rima con potere

Le limitazioni alla libertà d'espressione messe in atto con violenze, minacce e ricatti

Ci sono tanti modi per limitare la libertà d’espressione e tutti hanno sempre a che vedere con la difesa di un potere da parte di qualcuno. Ci sono sistemi violenti, anche da un punto di vista fisico. Ma ce ne sono pure di più subdoli, come i condizionamenti esercitati dal mondo economico e finanziario sui giornali, le pesanti pressioni della politica, le minacce delle mafie. È qualcosa che può colpire in ogni momento e ovunque: tanto nei regimi autoritari, strutturalmente a rischio, quanto nella democratica Repubblica italiana.

Ebbene, in questi giorni ci sono diversi motivi che ci spingono a fermarci a riflettere su questo tema. Domani, mercoledì 3 maggio, sarà celebrata la Giornata mondiale per la libertà di stampa. Mentre da oggi fino a domenica 7 maggio si svolge a Milano il Festival dei diritti umani, che ha scelto come filo rosso di questa seconda edizione proprio la libertà d’espressione. Giusto qualche giorno fa, inoltre, l’ong Reporter senza frontiere ha pubblicato il suo indice annuale sulla libertà di stampa, uno strumento di analisi utile, che valuta 180 paesi in base al pluralismo, l’indipendenza dei media, le garanzie offerte dalle legislazioni locali e la sicurezza su cui possono contare i giornalisti (l’Italia si è piazzata al 52esimo posto).

Sarebbe un peccato, quindi, non lasciarsi provocare e non approfittare di tutti questi stimoli per fare qualche considerazione e dare qualche elemento in più per ragionare sui diritti di informare, di essere informati e, più in generale, di potersi esprimere liberamente contando su una ricca circolazione di notizie e opinioni.

Nel corso di questa settimana, inoltre, Osservatorio Diritti pubblicherà ogni giorno almeno un articolo di approfondimento su questo argomento. Oggi cominciamo con la presentazione di uno studio sulla censura in Cina. Se ne parla poco, ma Pechino riesce ormai a cancellare le opinioni che circolano anche sui social network per evitare che le idee approdino a spiagge troppo scomode, in grado di mettere in discussione l’apparato di potere che governa il gigante asiatico.

Domani, invece, pubblicheremo un’intervista a Anna  Del Freo. La giornalista de Il Sole-24 Ore offre un’interessante analisi fatta da un osservatorio privilegiato, visto che ricopre il ruolo di segretario generale aggiunto della Federazione nazionale stampa italiana ed è membro del comitato esecutivo della Federazione europea dei giornalisti.

Seguirà il resoconto del dibattito in programma il 3 maggio al Festival dei diritti umani “Il pericolo non dovrebbe essere il mio mestiere. Il giornalismo tra censure, minacce e guerre“. E venerdì Osservatorio Diritti pubblicherà anche un’intervista esclusiva con Angela Gui, figlia dell’editore di Hong Kong Gui Minhai, detenuto dal governo cinese dall’ottobre del 2015.

Per ragionare su questo argomento, forse, è bene partire da un assunto tanto banale quanto importante da tenere a mente: la libertà d’espressione non è qualcosa che devono difendere solo giornalisti e addetti ai lavori, perché ne va della sopravvivenza di una società democratica, pluralista, giusta. Ed è utile anche mettere subito sul piatto il concetto che sta alla base di ogni violazione, quello di potere: è dalla sua strenua difesa che discendono tutte le limitazioni alla libertà di espressione.

Il potere militare e quello politico, legati al mantenimento dell’ordine in un territorio in senso autoritario, sono forse quelli più facili da capire in questo senso. L’uccisione di un giornalista o il sequestro di un attivista, come avvenuto recentemente in Messico, oppure le minacce per un articolo pubblicato (si pensi agli ultimi casi in Cecenia) o l’arresto di un operatore dell’informazione, come è accaduto a Gabriele Del Grande in Turchia e a tanti attivisti ucraini, rappresentano estremi tentativi di difesa del potere messi in atto con la violenza. Sono eventi che possono colpire la sensibilità collettiva e, proprio per questo, sono più facili da riconoscere.

Ma il potere economico e finanziario, con le relative pressioni, è forse tra quelli più pericolosi per la libertà di espressione nel nostro paese. Lo è perché non è sempre semplice da individuare, ed è quindi più complicato capire le dimensioni di questo tarlo che mangia ogni giorno un pezzetto di democrazia. Un dossier pubblicato nelle scorse settimane dal Centro nuovo modello di sviluppo, “I padroni della notizia. Viaggio nelle proprietà dei quotidiani italiani“, può aiutare a farsi qualche anticorpo alle manipolazioni orchestrate dall’alto (scarica il pdf). Ma ancora non basta.

Il fattore che resta ancora da capire e studiare a fondo, e sul quale gran parte dei mezzi di informazione italiani ha ancora paura a scrivere parole chiare, è quello della pubblicità. Eppure è un problema che hanno dovuto affrontare tanti giornalisti nel corso della carriera. Ed è bene fare qualche esempio per prendere coscienza di una cosa: quando leggiamo una notizia gratuitamente su internet, oppure in un giornale infarcito di pubblicità, probabilmente stiamo leggendo informazioni manipolate dal potere economico.

Nel corso delle mie collaborazioni con grossi giornali nazionali, settimanali e quotidiani soprattutto, ho dovuto sperimentare diverse volte quanto questo sia vero. Mi è capitato di proporre articoli sulle violazioni di diritti umani compiute da grosse società italiane in Africa e sentirmi rispondere, senza giri di parole, che «quella società è la nostra maggiore inserzionista pubblicitaria, non possiamo scrivere niente di negativo che la coinvolga». Intoccabile.

Mi è capitato anche di scrivere un dossier su un determinato argomento, vedere pubblicato a fondo pagina un articolo che smentiva tutta la mia documentata ricerca e scoprire infine che chi aveva scritto quel contro-articolo, che si firmava semplicemente con nome e cognome, era in realtà il capo dell’ufficio stampa del gruppo di aziende che mettevo in cattiva luce con la mia inchiesta. Ancora una volta: società che spendevano molti soldi in pubblicità. Intoccabili.

In entrambi gli esempi, si tratta di giornali molto grossi, che però, evidentemente, non possono o non vogliono cercare di stare in piedi senza piegarsi a questi ricatti. Può sembrare un discorso da sognatori, slegato dalle reali esigenze economiche di un giornale o di un sito di informazione. Forse lo è. Ma è bene ricordarsi che mettere in vendita un bene come questo – la libertà d’espressione – significa svendere la stessa democrazia.

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