Diritti a rischio nei decreti Minniti
I giuristi mettono in guardia: «Queste norme criminalizzano interi gruppi sociali»
C’è un lungo filo rosso che tiene insieme le politiche legislative in materia di immigrazione, libertà e sicurezza adottate dai governi italiani negli ultimi dieci anni. Dai provvedimenti del 2008 del leghista Roberto Maroni a quelli voluti dell’attuale ministro dell’Interno, il democratico Marco Minniti, «si continua nella tradizione di dividere tra cittadini perbene e permale. Questi ultimi non sarebbero nemmeno dei veri cittadini. Soltanto poveri, emarginati, tossici, mendicanti, migranti, prostitute». A parlare così è Tamar Pitch, docente ordinaria di Filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia, una studiosa attenta della relazione tra giustizia penale, controllo sociale e violazione dei diritti umani.
DA MARONI A MINNITI
Il cosiddetto “Pacchetto sicurezza” approvato da Maroni nel 2008 era un insieme di norme e misure urgenti che avrebbero dovuto consentire un contrasto più efficace dell’immigrazione clandestina e una maggiore prevenzione della criminalità. Tutto ciò concedendo più poteri ai sindaci, aumentandone le possibilità di intervento al fine di «contrastare il fenomeno dalla prostituzione, dell’occupazione abusiva, dello spaccio». Si prevedevano anche nuove norme per accelerare l’iter per il riconoscimento della protezione internazionale e, allo stesso tempo, velocizzare le procedure di espulsione.
In seguito, la Corte costituzionale dichiarò l’inammissibilità di norme comprese nei decreti Maroni perché violavano l’articolo 3 della Costituzione, ossia il principio di uguaglianza (sentenza n.115 del 2011). E stabilì anche che «le ordinanze dei sindaci, incidendo sulla sfera generale di libertà dei singoli, ponevano prescrizioni di comportamento in assenza di una valida base legislativa, molto oltre la normale discrezionalità amministrativa».
Nove anni dopo, il 12 aprile scorso, è stato convertito il decreto-legge n. 14 del 20 febbraio, “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”, parte del pacchetto Minniti-Orlando che prevede – ancora una volta – il rafforzamento del potere di ordinanza dei sindaci «con nuove modalità di prevenzione e di contrasto all’insorgere di fenomeni di illegalità quali, lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il commercio abusivo e l’illecita occupazione di aree pubbliche che possono influenzare negativamente la sicurezza urbana».
E il giorno dopo è stato convertito alla Camera anche il decreto legge n.13 del 17 febbraio 2017, “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”, l’altra faccia del pacchetto Minniti-Orlando che introduce una serie di misure «volte all’identificazione dei cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea e il contrasto dell’immigrazione illegale», soprattutto istituendo i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), una sorte di Centri di identificazione ed espulsione (Cie) più piccoli e diffusi sul territorio che hanno lo scopo di rendere più veloce il rimpatrio di chi non ha diritto alla protezione internazionale. Con le nuove norme, dunque, la disciplina della protezione internazionale in Italia ne esce rivoluzionata.
A RISCHIO INCOSTITUZIONALITÀ
Secondo alcuni giuristi potrebbero esserci diversi profili di illegittimità costituzionale alla base del decreto n.13 del 17 febbraio 2017. «Un atto normativo che ridisegna l’istituto della protezione internazionale in Italia», sostiene Loredana Leo, avvocato del nodo romano dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). «Innanzitutto si tratta di norme che non dovrebbero essere oggetto di un decreto legge, data la mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza», attacca Leo.
«Una riforma delle questioni relative ai cittadini stranieri deve essere affrontata con la legislazione ordinaria e con dibattito parlamentare». Tra i punti più controversi, dice Loredana Leo, «vi è sicuramente l’eliminazione del doppio grado di giudizio: in tal modo la protezione internazionale diventa l’unica materia in cui viene soppresso l’appello, determinando, così, un vero e proprio diritto speciale per i soli richiedenti asilo».
Anche altri giuristi sostengono che il decreto Minniti-Orlando sulla protezione internazionale non sia pienamente conforme al dettato costituzionale. Critiche in questo senso sono state espresse dall’Associazione nazionale magistrati (Anm), secondo cui la nuova legge provoca «una tendenziale esclusione del contatto diretto tra il ricorrente e il giudice nell’intero arco del giudizio».
Non solo. Continua a suscitare preoccupazione, soprattutto tra chi si occupa del diritto d’asilo, la permanenza dei cosiddetti centri “hotspot”, i punti di crisi istituiti nei porti di Taranto, Pozzallo, Lampedusa e Trapani (ma anche in diverse questure italiane) in cui il cittadino straniero da identificare può essere limitato nella sua libertà personale per il «tempo necessario all’identificazione». Tutto ciò potrebbe rappresentare una violazione dell’articolo 13 della Costituzione, che indica le condizioni in cui può essere limitata la libertà personale. A questo proposito, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani proprio a causa del trattenimento di cittadini stranieri all’interno del centro di accoglienza di Lampedusa.
IL COMMENTO
Esiste una continuità tra le politiche attuali e quelle attuate al tempo del ministro Maroni, sostiene Tamar Pitch: «Il recente decreto Minniti-Orlando sulla sicurezza urbana è forse addirittura peggiore di quello emanato a suo tempo dal leghista Maroni. Identica è la tendenza alla stigmatizzazione e alla criminalizzazione di interi gruppi sociali, i quali vengono tacciati di pericolosità soltanto a partire da un principio estetico».
Il discorso pubblico del governo Gentiloni, fa notare Tamar Pitch, discende dalla crisi dello stato di diritto, e dei diritti, e si muove a partire da due binomi concettuali: decoro/indecenza, perbene/permale. «C’è un intento fortemente securitario alla base dei decreti, che, così come sono concepiti, rischiano di ledere i diritti di libertà minimamente intesi», commenta la professoressa.
È ancora la Pitch ad ammonire: «È una cosa gravissima, ad esempio, la punizione di alcune condotte o modi di essere, a prescindere dal fatto che queste producano fattispecie di reato». È il passaggio dal penale all’amministrativo, in sostanza, ciò che i decreti introducono, oltre a nuove forme di controllo sociale, diffuso e capillare.
Anche secondo Tamar Pitch, dunque, «ci troviamo di fronte a una serie di misure legislative che potrebbero essere giudicate incostituzionali».