Del Grande: «Ankara liberi giornalisti»

Liberato Gabriele Del Grande. Che denuncia: in Turchia ci sono ancora 164 giornalisti

Gabriele Del Grande torna a casa. Dopo due settimane di prigione in Turchia, un’intensa trattativa diplomatica e una mobilitazione della società civile in sua difesa, il giornalista italiano è stato liberato lunedì 24 aprile. Ma non è intenzionato ad accettare che tutta l’attenzione si concentri solo sul suo caso. «Non mi piace l’idea di essere accolto come un eroe», ha voluto chiarire. E ha colto subito l’occasione per denunciare la mancanza di libertà diffusa nel paese.

I giornalisti in carcere in Turchia sono 164, «io sono il numero 165 e il caso più fortunato», quindi a quel paese «faccio appello perché liberi tutti i giornalisti». Del Grande sottolinea che «non è accettabile che si possa essere incriminati per il lavoro che si svolge» e «non voglio essere preso come l’unico» ad aver subito un trattamento del genere.

La sua vicenda ha ancora diversi aspetti da chiarire. A cominciare dalle ragioni dell’arresto. «Non ho ancora avuto accesso al mio fascicolo, né io né i miei avvocati, quindi non so perché sono stato fermato», ha detto. Aggiungendo che si è trattato di «una violazione molto grave delle libertà fondamentali, sia come individuo che come giornalista».

La missione di Del Grande, a quanto racconta lui stesso, non aveva nulla di eroico, niente che potesse fare così tanto paura alle autorità di Ankara. «Faccio un lavoro più simile a quello di un ricercatore, cose meno avventurose di quel che potete immaginare, vado a casa delle persone e chiedo informazioni», racconta Gabriele Del Grande. «Non avevo nemmeno la macchina fotografica». In Turchia, racconta ancora, «il mio progetto era quello di intrecciare biografie e storie personali di persone che vivono in una zona dove si sta scrivendo la storia».

LA VICENDA

Ma che cosa è accaduto a Del Grande? In Turchia «sono entrato con un passaporto regolare e un timbro regolare, non ero intenzionato ad andare in Siria», spiega. «Non sono stato fermato al confine, ma in una città lungo il confine».

Il giornalista ricorda così quei momenti: «Stavo mangiando in uno dei migliori ristoranti della città con una mia fonte», quando «sono arrivati otto agenti in borghese, ci hanno mostrato i distintivi, poi siamo stati caricati su due auto diverse, senza nessun contrassegno delle forze dell’ordine, e siamo stati portati in quella che apparentemente era una stazione polizia, poi sono cominciati gli interrogatori».

La gravità della situazione non è stata subito evidente. «Il clima era strano, all’inizio sembrava una sciocchezza, loro sdrammatizzavano la situazione e all’inizio anche il mio atteggiamento era collaborativo, hanno guardato il computer e le foto, ma non c’era nulla di strano, poi il trasferimento», prosegue Del Grande.

Gli agenti «volevano sapere con chi avessi parlato, se avevo contatti in Siria e cercavano sul telefono l’evidenza di contatti con la Siria», racconta ancora il giornalista. A questo punto «se oggetto della vicenda e delle domande era il mio lavoro, ho detto che non avrei parlato senza il mio avvocato e senza contatti con il consolato», aggiunge. Ma «non immaginate interrogatori sotto tortura, non ho mai subito nessuna violenza».

VOGLIA DI TORNARE

Nonostante tutto quello che accaduto, Del Grande dice che, «come ho detto anche ai poliziotti che mi hanno portato in aeroporto quando ci siamo salutati, vado via dalla Turchia ma non vedo l’ora di tornare». Il giornalista dice anche di aver detto loro «che andavo via, nonostante tutto, con un sentimento di rinnovata amicizia verso il popolo turco», perché «al di là dell’aspetto politico non è stato un incidente fra popoli, è stata una violenza istituzionale con una sospensione del diritto» e in tutto ciò «né io né i miei avvocati abbiamo ancora accesso al fascicolo».

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