Vincenzo Stranieri, una vita al 41 bis
L'ex boss della Sacra Corona Unita, molto malato, è il detenuto da più tempo nel carcere duro
Vincenzo Stranieri, l’ex boss della Sacra Corona Unita, è il detenuto italiano che ha passato più tempo al 41 bis, il regime di carcere duro inizialmente previsto solo per i mafiosi. Ora l’uomo è gravemente ammalato e la figlia Anna chiede che sia curato.
Stranieri oggi ha 56 anni e si trova in cella, senza interruzioni, dal 1984. E da 25 anni è detenuto in regime di massima sicurezza. È un uomo gravemente ammalato e invalido, raccontano le cartelle cliniche. L’ultima relazione sanitaria di qualche settimana fa lo descrive come «un paziente con una diagnosi infausta a medio termine». Il tribunale di sorveglianza dell’Aquila doveva valutare, lo scorso 4 aprile, se concedere o meno la sospensione della misura di sicurezza detentiva. Ma il giudizio è slittato, come spiega uno dei legali dell’uomo, l’avvocato Fabiana Cubitoso: «Ho ricevuto una richiesta di aiuto da Stranieri nel luglio scorso e mi sono subito mobilitata per lui. Il suo stato di salute è molto grave, come riconosciuto dallo stesso procuratore capo, che aveva espresso per due volte parere favorevole alla sospensione della misura detentiva».
Il tribunale di sorveglianza, a cui spetta l’ultima parola, ha sospeso il giudizio «per il conferimento di incarico peritale ad un medico residente nella città aquilana». I magistrati, cioè, dovranno accertare se lo stato di salute di Stranieri – che non ha mai ricevuto condanne per omicidi o altri fatti di sangue, ma è considerato un importante esponente dell’organizzazione mafiosa pugliese – sia compatibile con il regime detentivo del 41 bis. Il responso dei giudici di sorveglianza dovrebbe arrivare non prima di qualche settimana.
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UN’ATTESA DI OLTRE 30 ANNI
L’attesa dura da parecchio tempo, come racconta la figlia di Stranieri. «Mio padre ormai è un internato», dice Anna. «Il 13 maggio 2016, dopo 31 anni, aveva terminato di scontare la sua pena, ma invece di farlo uscire dal carcere gli è stata applicata una misura di sicurezza detentiva che lo costringe a stare chiuso altri due anni in una casa agricola». E così nella primavera scorsa l’ex boss era uscito dal carcere di Terni per rientrare in quello dell’Aquila.
La misura personale detentiva di cui parla Anna Stranieri è tra quelle previste dall’articolo 216 del codice penale, «l’esecuzione in colonia agricola o casa di lavoro», e prevede, appunto, il lavoro come strumento di reinserimento sociale del detenuto. In Italia però non ci sono strutture di questo tipo. O meglio, ne esiste soltanto una a Saliceta, in provincia di Modena. Per questo gli internati sottoposti a questa misura ritornano in carceri normali. Ed è questo il caso anche di Vincenzo Stranieri.
La figlia considera l’internamento del padre una ingiusta detenzione. «Come può lavorare una persona che si alimenta soltanto con un sondino gastrico?», si chiede Anna. «È evidente che c’è un accanimento nei suoi confronti. Mio padre è isolato dal mondo da quando aveva 24 anni. Ora ne ha quasi sessanta. Ha subito diversi ricoveri in ospedali psichiatrici e molti trattamenti sanitari obbligatori».
LA MALATTIA
Qualche settimana fa l’uomo è stato ricoverato d’urgenza nella casa di cura sanitaria del carcere di un’altra città, ma sarà comunque il tribunale dell’Aquila a decidere se sospendere la misura di sicurezza detentiva, come chiedono la famiglia e i legami dell’uomo, e a stabilire se potrà essere curato in una struttura sanitaria più adeguata.
«Il calvario di mio padre cominciò sette anni fa nel penitenziario dell’Aquila», ricorda Anna. Era il 17 aprile del 2010. Quel giorno Stranieri fu trasferito dal penitenziario abruzzese all’ospedale giudiziario di Livorno perché era profondamente debilitato e incapace di nutrirsi. «Lo trovai che aveva perso 40 chili e non mi riconobbe nemmeno», dice ancora la donna. «Mi rivolsi ai parlamentari del gruppo radicale che depositarono interrogazioni e denunce, ma tutto rimase lettera morta».
Ciò che la figlia di Vincenzo Stranieri chiede per il padre «non è l’impunità, né la scarcerazione, ma che sia curato». I legali dell’uomo, inoltre, presentarono un esposto anni fa «perché il detenuto vive uno stato di malessere causato da diverse vessazioni, minacce e torture attuate nei suoi confronti dal personale della polizia penitenziaria». Un allarme che la figlia dell’ex boss continua a ripetere ancora oggi: «Mio padre sta morendo al 41 bis sottoposto a tortura».
Parole simili sono state usate di recente anche dal garante nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma. Presentando a marzo al Parlamento il lavoro svolto dall’Autorità di Garanzia, infatti, Palma ha detto: «Dobbiamo poter chiamare tortura ciò che ne ha tutte le caratteristiche». Un monito con cui ha indirizzato alle istituzioni diverse raccomandazioni in materia di privazione della libertà, tra le quali la «necessità di abolire le cosiddette aree riservate, ovvero i reparti interni ancora più chiusi rispetto alle sezioni ex 41-bis», così come si legge nella relazione presentata dal garante.
25 ANNI DI EMERGENZA
Il 41 bis era stato introdotto inizialmente come una misura di ordine pubblico emergenziale, approvato nell’estate del 1992 in seguito alla strage di Capaci, in cui morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta. «Il sospetto è che con il tempo sia una misura servita, estendendone il suo ambito di applicazione anche ad altri tipi di reati e fattispecie, ad esercitare un’arma di pressione e ricatto verso i detenuti», dice Alessio Scandurra, componente del comitato direttivo nazionale di Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. «La nostra posizione sul 41 bis non può che essere fortemente critica, perché sicuramente il quadro normativo del nostro ordinamento penitenziario è in larga parte condivisibile in via teorica, ma non se possono condividere le linee applicative».
Secondo Scandurra, «i caratteri della sospensione dei diritti, dell’emergenza della pena e della straordinarietà dell’intervento, tutte prerogative del 41 bis, si trovano in palese contraddizione con lo spirito del nostro ordinamento». Tanto che «è stato largamente provato che i detenuti che per lunghi anni vivono in certe condizioni presentino poi gravissimi problemi sanitari e relazionali».
Proprio in questo senso, dunque, il caso di Vincenzo Stranieri sta facendo scuola. Se ne parla anche nell’ultimo rapporto sul sistema detentivo speciale redatto dalla commissione parlamentare straordinaria per la Tutela e la promozione dei diritti umani. L’indagine conoscitiva sulle condizioni detentive in Italia contiene alcune raccomandazioni «sulla necessità di facilitare lo svolgimento dei colloqui favorendo le visite senza il vetro divisorio, prevedendo la possibilità di dedicare alle visite con i minori di 12 anni un intervallo di tempo al di fuori dei 60 minuti totali riservati al colloquio con i familiari».
C’è una componente preventiva di intimidazione molto importante che è presente in una misura di questo tipo, sostiene il rappresentante di Antigone, «e sicuramente non può essere tollerata, perché se è vero che i diritti umani sono universali, sono anche diritti di chi ha torto, di chi sta ancora, oppure di chi è stato, dalla parte sbagliata».